Antonio (Spoletini) e i suoi fratelli. I cacciatori di volti di Cinecittà, in un doc

Passato alla Festa di Roma, “Nessun nome nei titoli di coda”, documentario di Simone Amendola dedicato alla celebre famiglia degli Spoletini, i più noti “cacciatori” di volti, ossia di comparse di Cinecittà. A raccontarne le “gesta” è uno dei fratelli, Antonio, 82 anni, attivissimo, prestante che nel cinema c’è nato: “Sono più vecchio di Cinecittà. Siamo tutti e due del ’37, ma lei è di aprile e io sono di marzo”. Lavorando con tutti, a cominciare da Fellini: “Faccio prima a dì con chi non ho lavorato!” …

E già! Nei sia pur, a volte, proprio chilometrici titoli di coda non c’è davvero mai spazio per le vecchie, care “comparse”, oggi “nobilitate”, talvolta, con la qualifica di “figuranti”.

L’arte è al “centro”, reale o metaforico che sia (vedi Rudolf Arnheim), giusto laddove sta il protagonista; intorno, sparsi per il fotogramma, solo figure caratteristiche, persone, generici, “masse”.

In un tentativo di rimedio a questo evidente torto, in appropriata versione in stile “lotta di classe”, la mente va subito a quel Peter Sellers di Hollywood Party (di Blake Edwards, 1968): lui, attore indiano che fa ora la comparsa a Hollywood e che, da intraprendente “extra” (e come è giusto che sia, per rivincita!), si ficca fin dentro la festa organizzata dal produttore per il film e combina, fraintendendo e pasticciando, una quantità inenarrabile di disastri. Solo così, diviene da “contorno”, finalmente protagonista, finisce dritto, dritto al centro della scena. Una vera rivoluzione.

Poi ancora, nella carrellata dei pensieri, un ricordo alla La merlettaia (1977) di Claude Goretta. Bel film con titolo “programmatico”, ripreso da un quadro di Vermeer, film ispirato in genere ai ritratti “minimi” di vita domestica che trovano all’improvviso posto nell’iconografia della pittura dal Seicento in poi. Titolo programmatico perché Goretta della figura in disparte, la merlettaia (nel film una più adeguata ai tempi “parrucchiera”, innamorata a morte di un intellettuale), fa, da negletta, il ruolo centrale della sua bella storia d’amore.

Comparse. Tra i tanti famosi, anche Pier Paolo Pasolini era iscritto al Sindacato comparse di Cinecittà ed anche lui in questo strano modo, “povero come un gatto del Colosseo” com’era, cercava di sbarcare il lunario nei primi anni passati a Roma, ed è forse per questo uno dei suoi capolavori, La Ricotta ha come protagonista Mario Cipriani, “Stracci”, comparsa e forse figurante, nella parte di un ladrone buono crocefisso affianco al Cristo.

Insomma, a volte la marginalità diviene centrale, per scherzo o per testardaggine; ma appunto, solo a volte.
In genere, fare la comparsa è stata una occasione per tanti di trovare sostentamento (lo è ancora oggi !), meno quella di tentare di sfondare come attore (cosa comunque capitata a molti); nei libri di storia del cinema si parla di ben 4.000 comparse per le scene più affollate di un filmone come Ben Hur e di 32.000 giornate lavorative complessive per le moltissime comparse utilizzate per Scipione, l’africano, film-manifesto della cinematografia fascista.

Simone Amendola, cineasta e drammaturgo, col suo Nessun nome nei titoli di coda dimostra attenzione e dedizione per le tante tessere che compongono il grande puzzle del cinema, e ne racconta con tenera vicinanza una: proprio quella delle comparse, o ancora di chi le comparse le cerca, le recluta, ne raccoglie poi fotografie e dati in preziosi schedari, divisi per tipologie, secondo i desideri dei registi.

È il caso degli Spoletini a Cinecittà: famiglia attiva nella ricerca di comparse fin dal momento in cui gli Studios di via Tuscolana hanno aperto i battenti.
In una foto col Maestro Fellini sono ritratti tutt’e cinque i fratelli intorno al grande riminese, e sono mille e più le situazioni nelle quali gli Spoletini hanno collaborato coi grandi cineasti, stanziali o di passaggio a Roma. Una vita intera di lavoro.

A mantenere ancor oggi viva la presenza degli Spoletini a Cinecittà c’è, intervistato e seguito nel film, l’ottantenne Antonio Spoletini, attivissimo, prestante, vigile, sempre in cerca del lavoro che serve a sfamare le tante famiglie del suo ristretto, ma mica poi tanto, entourage ed anche per un’autentica passione che ha per questo strano lavoro che è il cinema.
Trasteverino e romanissimo, Antonio Spoletini è la quintessenza di quello che ti aspetti da un figlio del Cupolone, sia egli al lavoro negli Studios che sullo schermo.

Nel cinema fin da ragazzo, ossia dal 1951, ha lavorato con tutti. “Faccio prima a dì con chi non ho lavorato!”, rivela. Ed è proprio così. Ha conosciuto tutti i registi passati a Cinecittà, dall’epoca d’oro ad oggi.
Bel ritratto dunque di Antonio Spoletini, e del cinema italiano d’oggi, Nessun nome nei titoli di coda rimane piacevolmente impresso, per l’amore ed il rispetto che porta a luoghi (Cinecittà) e alle persone (le comparse, le persone del casting, le maestranze). Per una volta almeno, il frame si allarga, si sgrana, si smaterializza, il potere del centro lascia posto alla rivincita del resto dell’immagine; e con grande efficacia.

Proprio sull’immagine e sulla fotografia (ma non solo) Simone Amendola vince la sua sfida; il racconto è caparbiamente sostenuto da un protagonista un poco cerbero, un poco introverso, sbrigativo, certamente carismatico ma anche, va ribadito, da inquadrature davvero molto belle.

Da ricordare almeno le “selezioni”, il trucco, le attese di un intero conclave di cardinali (quelli del film di Sorrentino Il nuovo papa), con immagini che sembrano ispirate alla sfilata di moda ecclesiastica di Fellini in Roma (tra l’altro, il film del quale Antonio Spoletini, avendoci figurato con tutti i suoi fratelli, cerca spasmodicamente una buona copia in 35 mm. : il potere onirico del cinema conquista tutti, il sogno regna a Cinecittà!).