“Blade Runner” trent’anni dopo. L’effetto speciale è l’uomo

Nelle sale dal 5 ottobre (per Warner Bros) l’atteso sequel del capolavoro di Ridley Scott ispirato alle pagine di Philip K. Dick. È “Blade Runner 2049″ in cui il regista Denis Villeneuve, spostando l’asticella verso una fantascienza più filosofica, ci accompagna in una Los Angeles battuta dalla pioggia e dallo smog arancio. Ryan Gosling è il nuovo agente K alle prese con nuovi replicanti, più potenti e più longevi. E l’effetto speciale è l’uomo …

Ci sono un originale, un sequel (anzi un follow up, come si preferisce dire oggi) e ben tre pre-sequel. Blade Runner di Ridley Scott (1982), Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve (2017) e tre corti (tra cui uno animato) che illustrano che cosa è accaduto tra il 2019 – l’anno in cui si svolgono i fatti narrati nel film di Scott – e il 2049, approdo (provvisorio?) del «replicante» Villeneuve. L’originale lo recuperate in dvd, nei vari passaggi in tv o sulla rete; i cortometraggi vi aspettano su You Tube; e l’attesissimo, nuovo Blade Runner 2049 lo potete vedere dal 5 ottobre in uno sterminato numero di sale, distribuito dalla Warner.

Sono passati dunque trent’anni – nella finzione cinematografica – e ci ritroviamo in una Los Angeles, se possibile, ancor più cupa e corrusca di quella mostrata nell’«originale». Sorvolata dalle macchine volanti che sfrecciano nel suo cielo potrebbe anche affascinare ma se si scende fino a terra mostra un groviglio di cose, uomini e no, inquietante. Tutto attraversa ed è attraversato dalla pioggia e da uno smog arancio-giallastro che offusca corpi e coscienze. Già, perché la coscienza – del reale, dell’essere umano, di sé, dell’anima – è il perno intorno al quale ruota il film. Anche la coscienza dell’Agente K, interpretato da Ryan Gosling, (come prima accadeva al suo collega cacciatore di androidi Rick Deckard/Harrison Ford) è offuscata e ha difficoltà a distinguere il confine tra uomini e replicanti.

Di replicanti ce ne sono di nuovi, più potenti, più longevi e, soprattutto, fedeli e leali con gli umani, immessi sul mercato come nuovi modelli – dopo la generazione Nexus 6 (quella cacciata dal Rick Deckard d’antan) siamo arrivati alla Nexus 8… come l’iPhone -. Li ha creati Niander Wallace (Jared Leto) impostosi al potere dopo anni di decadimento urbano, cambiamenti climatici, e lotte tra classi sociali e corporazioni economiche.

A complicare le cose ci si mette il ritrovamento «archeologico» di uno scheletro il cui esame scientifico (eseguito con una scansione elettronica – simile a quella usata da Deckard in una sequenza famosa di Blade Runner) apre a segreti che scaraventano l’Agente K in una ricerca che potrebbe compromettere il dispotico equilibro della società.

E ci fermiamo qui, perché da qui in poi s’infittiscono particolari, dettagli, colpi di scena tali da trasformare il nostro racconto in un gigantesco spoiler su come andrà a finire. Aggiungeremo soltanto che nella «quest» inscenata da Rayan Gosling il ritrovamento finale del cacciatore di androidi originale, Harrison Ford, sarà davvero risolutore – anche se da lì alla vera fine del film passerà oltre mezz’ora della proiezione che è partita due ore prima.

Se Blade Runner aveva contribuito non poco alla rivoluzione del cinema di fantascienza contaminando visioni anticipatrici e atmosfere noir, Blade Runner 2049 sposta l’asticella verso una fantascienza filosofica. Contano sì gli effetti speciali – peraltro usati con moderazione e privilegiando set reali più che virtuali (scenografia di Dennis Gassner e fotografia di Roger Deakins)-; contano di certo i vertiginosi sorvoli di metropoli a venire o già defunte; contano (almeno per i fan e i nostalgici dell’«originale») le replicate situazioni, le citazioni, gli «indizi» come i cavallucci di carta; conta in maniera fondamentale la musica di Hans Zimmer (il compositore preferito da Christopher Nolan del quale ha musicato Inception, Interstellar e da ultimo Dunkirk) qui affiancato da Benjamin Wallfish, musica che ingloba in un tappeto di note, vibrazioni e rumori, spunti e frammenti della celebre colonna sonora di Vangelis.

Ma nel film di Denis Villeneuve (sceneggiatura di Hampton Fancher e Michael Green, e sullo sfondo l’ispirazione di Philip K. Dick) conta, in più, il costante interrogativo su «che cosa definisce un essere umano», sulla differenza tra «uomo concepito» e «uomo creato». Ciò che succede e si rivela nel film e nell’anima del protagonista allude perfino a una forma di cristologia, disseminata in alcuni indizi che s’intravedono in qualche scena. Da non perdere: e non è una formula scontata.