Ciao Pietro, l’ultimo garibaldino. Che sapeva farci ridere

Se n’è andato all’improvviso, a 52 anni, lasciandoci senza fiato, all’alba del 6 novembre, Pietro Cheli, giornalista, scrittore e soprattutto amico. I funerali saranno l’8 novembre a Milano, chiesa di Santa Maria del Suffragio, ore 11. Qui un suo regalo di qualche tempo fa, un magnifico racconto dedicato alla sua folgorazione per Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che ha contribuito a farlo “sentire garibaldino sin dalla preadolescenza” …

Se n’è andato all’improvviso, a 52 anni, lasciandoci senza fiato, all’alba del 6 novembre, Pietro Cheli, giornalista, scrittore e soprattutto amico. Amico anche di queste pagine web, che non solo leggeva tra mille impegni, ma “passava” (come si dice in gergo giornalistico) pezzo per pezzo, inviandoci via whatsapp puntuali e severissime correzioni. Spesso accompagnandole con le sue rime baciate di cazzeggio, affettuose o sporcaccione, espressione più sincera di quella sua leggerezza fatta arte, di cui è sempre stato insuperabile maestro. E di cui Alba sua magnifica compagna di vita, ha sempre riso come una pazza, magari imbarazzandosi un po’.

Pietro Cheli è (stato) tante cose. A poco a poco web e giornali si stanno riempiedo della sua biografia, illustre, di giornalista culturale, di vice direttore di Amica oggi, di lettore vorace e temibile “criticone” (come il nome del suo blog, a giocare pura sulla sua mole), di scrittore amato dagli scrittori (Luis Sepúlveda lo ricorda così: «bisognava abbracciarlo un po’ per volta perché tanta umanità non entrava in un solo abbraccio»). E l’aggettivo che rimbalza di più è “autorevole”. Sì perché Pietro Cheli lo è sempre stato autorevole, fin dai tempi de Il giornale, poi a La voce con Montanelli, Glamour e Diario, irripetibile avventura culturale condivisa con Enrico Deaglio, nata come inserto de l’Unità che chiuse nel 2009, triste preludio a quello che sarebbe successo all’intero mondo del giornalismo.

Pietro Cheli ci ha lasciato molti regali. E a noi di Bookciak questo suo racconto – che è quasi un’autobiografia – pubblicato da Longanesi, ne I libri ti cambiano la vita. Cento scrittori raccontano cento capolavori, a cura di Romano Montroni. Un racconto dedicato alla sua folgorazione per Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, vissuta prima attraverso il film di Luchino Visconti, dove, scrive ” le sequenze iniziali tra garibaldini e borbonici… hanno contribuito a farmi sentire garibaldino sin dalla preadolescenza”.

La prima volta non l’ho letto, l’ho visto. Durante le vacanze estive a Teglio, in Valtellina, nella programmazione abbastanza consueta di versioni b-movie, da Robin Hood al Corsaro Nero, era entrato il capolavoro che Luchino Visconti aveva tratto dal capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Mi ricordo poco di quella sera, neanche quale fosse più o meno l’anno. Solo che il parroco, il titolare della sala, al mattino negli annunci di fine messa si era raccomandato di arrivare prima del solito perché questa volta il film era davvero lungo. Pochi giorni prima di lavorare a queste pagine ho chiesto a mia sorella che cosa le fosse rimasto in mente. Senza esitazione mi ha detto: « Il ballo! » A conferma che noi maschi siamo sempre un po’ limitati, confesso che a me per anni invece giravano in testa solo le immagini degli scontri a Palermo, le sequenze iniziali tra garibaldini e borbonici. Sinché non ho rivisto il film – quando hanno inventato i dvd è stato il primo che ho comprato – pensavo addirittura che durassero moltissimo. E, in ogni caso, hanno contribuito a farmi sentire garibaldino sin dalla preadolescenza.

Il libro l’ho scoperto dopo. Ma so bene quando: quinta ginnasio, al Liceo D’Oria di Genova avevo una di quelle insegnanti che rendono onore alla scuola. Enza Forgione, non so dove sia, spero che per un caso legga queste pagine: è grazie anche a lei se mi sono reso conto che dei libri ci si innamora. Per aiutarci a capire che I promessi sposi non era una palla colossale (come accadeva al 90 per cento dei nostri coetanei) e che bisognava inquadrarlo, ci aveva fatto leggere I Vicerè di Federico De Roberto (l’ho offerto in opzione a Romano Montroni per questo libro nel caso qualcuno avesse già scelto Il Gattopardo). E poi ci aveva fatto discutere, aiutandoci a capire gli angoli oscuri (del romanzo e della storia italiana).

Insomma, dopo De Roberto, arriva Tomasi di Lampedusa e io, pagina dopo pagina, sprofondo tra i dubbi e le certezze del principe, mi impossesso del suo fisico poderoso, sogno il profumo di Angelica, immagino il timballo di maccheroni, sento l’eco dell’orchestra. Da allora ho una predilezione per i palazzi sbrecciati che cadendo qua e là a pezzi mantengono il loro fascino grandioso.

L’unico aspetto che solo dopo riletture successive mi è stato più chiaro è quello erotico: le preghiere della principessa Maria Stella nel dopo, le fughe di Tancredi e Angelica nel palazzo di Donnafugata, le ansie di Concetta. A quattordici anni sognavo di più i garibaldini. E persino il conte Cavriaghi, l’amico sfigato che aveva diviso l’avventura garibaldina con Tancredi, mi sembrava un eroe.

Tre cose che ho imparato leggendo Il Gattopardo/1

Diffidare sempre della ricchezza esibita (e del nuovo che avanza). Calogero Sedara che sale le scale con il frac tagliato su misura da un artigiano di Donnafugata è la metafora potente di tante cravatte sbagliate d’oggigiorno. Dell’arroganza del denaro accumulato in fretta (e con modalità oscure).

Mai rinunciare alla buona educazione. Senza le maniere giuste il principe di Salina non riuscirebbe a trattare e far ragionare nessuno, da Calogero Sedara a padre Pirrone, da Ciccio Tumeo al retorico colonnello Pallavicino (bastano due parole sue per farti diventare garibaldino a vita).

Si combatte sempre per un re. Ma quale re? Quando Tancredi saluta lo zio prima di unirsi alla rivoluzione i due parlano rapidamente. Conta di più il non detto. Ma da quel «quale re» che il nipote oppone allo zio in modo sfrontato discende la famosa teoria del tutto cambi perché tutto resti uguale. Certo, aiuta a capire i 150 dell’Italia, ma anche quanti guasti ci ha procurato.

Oltre trent’anni fa sono stato in Sicilia per la prima volta: durante una vacanza nella settimana di Pasqua giravamo con un gruppo di amici, tutti insieme in un pulmino. Quello che ci aveva invitato e organizzato viveva a Palermo, ma era originario di un paesino dell’entroterra. E ci teneva molto a portarci lì. La sua famiglia era una di quelle in vista. Lo scoprimmo quando da un angolo della piazza deserta, dove eravamo arrivati con un po’ di ritardo sulla tabella di marcia, spuntò una delegazione impettita di varie autorità locali, autoconvocatesi per rendere onore agli ospiti. Alla loro vista mi scappò: «Manca solo che cantino Noi siamo zingarelle». Non ho mai capito se l’ospite gradì o meno, da vero siciliano non lo lasciò intuire. Ma sembrava davvero l’arrivo della famiglia del principe a Donnafugata. Tornato a casa ho riletto Il Gattopardo.

Tre cose che ho imparato leggendo Il Gattopardo/2

Un siciliano e un piemontese vanno d’accordo. Alla faccia della devoluzione, del federalismo: due persone di bei modi e buona intelligenza, che arrivano dagli estremi della Penisola, si trovano subito. Chiamatelo teorema di Chevalley, dal nome del nobile piemontese che tira un sospiro di sollievo quando vede un aristocratico lombardo molto a suo agio in un palazzo aristocratico siciliano. Impagabile l’immagine dello stesso Chevalley e di Francesco Paolo, il terzogenito del principe, che portano insieme il bagaglio per eccesso di cortesia reciproca.

La grande letteratura è sempre inattuale. Tutta la vicenda è immersa nel tempo in cui è narrata, ma al contempo ne fugge. Scivola nell’anima dei personaggi e nei palazzi e nei giardini dove questi vivono. E illumina gli angoli oscuri degli uni e degli altri. Ci racconta uomini e donne assoluti, caratteri eterni. (Tanto è vero che un genio come Luchino Visconti ha trovato un don Fabrizio perfetto in Burt Lancaster.)

Alle ragazze non piace Aleardo Aleardi. Povero Cavriaghi che vorrebbe fare breccia nel cuore di Concetta con i canti del poeta romantico (se Tomasi non l’avesse citato ce ne ricorderemmo?) Come pensa di farcela con pensieri così sdolcinati? Neanche nell’Ottocento le ragazze erano così. E poi lei, come dice il padre don Fabrizio, pensava al cugino Tancredi e quel nobile lombardo è davvero come bere acqua dopo aver gustato il Marsala.

Lo scorso agosto solo in macchina, mentre guidavo in autostrada e riuscivo a prendere bene Radiotre per un lungo tratto (gli ascoltatori hard sanno che ha del miracoloso) ho sentito una lettura del capolavoro di Tomasi di Lampedusa. Non ricordo chi fosse l’attore, ma era molto bravo nel rendere conto della fragilità del principe: erano, infatti, le ultime pagine, non le più famose o le più citate, quando tornando da un viaggio a Napoli don Fabrizio si sente poco bene e viene portato all’albergo Trinacria. Seguiva il finale, con la visita di Angelica e del senatore Tassoni a Concetta (e sorelle) a Villa Salina. Mentre lo ascoltavo, mi rendevo conto di ricordarlo a memoria. Tanto che alla fine mi sono commosso e ho accostato in un’area di parcheggio per godermi un istante infinito di Gattopardo dentro di me.

di Pietro Cheli