Elogio della lotta di classe, in Salento. I cafoni che diventeranno operai dell’Italsider
È il libro “La guerra dei cafoni” di Carlo D’Amicis (minimum fax) che ha ispirato il film di Davide Barletti e Lorenzo Conte. Originale racconto di una lotta di classe adolescenziale, ambientata negli anni ’70 in Salento. Due bande giovanili contrapposte, per estrazione sociale, reddito, istruzione ma unite dall’odio per i nemici. Figli di ricchi contro cafoni, figli di pescatori, contadini, braccianti, poi trasformatisi in operai dell’Italsider…
L’hanno detto e scritto un po’ tutti, quando uscì il libro. Dentro quelle pagine ci sono gli echi lontani delle grandi trasformazioni che cambiarono per sempre il mondo a metà anni ‘70. Letti, “filtrati” attraverso gli occhi di due bande giovanili contrapposte, in uno sperduto – e inventato – paesino del Salento. Contrapposte per estrazione sociale, reddito, istruzione ma unite dall’odio per i nemici. Figli di ricchi (e di medio ricchi) contro cafoni, figli di pescatori, contadini, braccianti, poi trasformatisi in operai dell’Italsider.
Quando, quasi dieci anni fa, uscì La guerra dei cafoni di Carlo D’Amicis (minimum fax) la critica si concentrò soprattutto su quest’aspetto: uno strano, originale racconto di una lotta di classe adolescenziale. Dove le “appartenenze” venivano date una volte per tutte. E dipendevano dalla famiglia in cui si nasceva.
Fino a che, in quegli anni in cui tutto sembrava cambiare, non entra in crisi anche il manicheismo che ispirava i due gruppi. Che guidava soprattutto il leader dei “ricchi”: Francisco Marinho, come si faceva chiamare in omaggio ad un ipotetico calciatore brasiliano (negli anni in cui sarebbe stato assurdo anche solo ipotizzare l’umiliazione subita dai sudamericani al Mondiale del 2014), o più semplicemente “il maligno”, come voleva lo chiamassero i suoi rivali poveri.
Sì, perché il libro è scritto in prima persona da Francisco, è la storia scritta da chi aveva sempre vinto e probabilmente avrebbe continuato a vincere. Solo che quell’estate del ‘75 – in un attimo, dopo uno sguardo, una parola con una ragazza, figlia di cafoni, che aveva ferito (ferito letteralmente, lanciandole per sbaglio addosso delle meduse urticanti) – Francisco scopre che tutto – ma proprio tutto-tutto – è più sfumato. Molto più articolato. Scopre che tanti avevano già deciso di disertare quella guerra. Scopre che anche per lui, il suo feroce odio per i cafoni era solo un modo per mascherare un disordine interiore. Che decide di lasciar scorrere.
Un testo originale, s’è detto. Interessante. Ma non solo nella trama. Il suo incedere, il dispiegarsi del racconto, ha molto infatti del poema cavalleresco, di un moderno poema cavalleresco. Che però mantiene intatta la struttura tradizionale: col racconto che arriva al momento di maggiore tragicità alla fine di ogni capitolo, salvo poi acquietarsi all’inizio del successivo. Lasciando spazio a lunghe digressioni descrittive dell’ambiente, in un paesino che anche urbanisticamente è diviso in due: villette dei ricchi, anguste stradine per i poveri.
Ma forse c’è di più, anche nella trama. Magari nell’ultimo capitolo. Dove – con quell’umorismo sotteso ad ogni pagina, con quel senso del grottesco che non viene mai meno – Francisco, ormai adulto e “inquadrato” (tanto “inquadrato” fra i benestanti del Nord Italia che svela di usare occasionalmente la cocaina) prova a fare il punto sulle vite degli altri protagonisti. E si scopre che fra i suoi ex, qualcuno è riuscito ad uscire dalla mediocrità.
Qualcuno, perché altri sono rimasti invischiati nelle nuove – nuove per quegli anni – suggestioni, prima di tutto la carriera tv. Ma si scopre soprattutto che, da quel che ne sa, nessuno dei cafoni ce l’ha fatta. Certo, qualcuno è salito – più o meno lecitamente, si intuisce – nella scala della ricchezza. Ma del loro orgoglio di “cafoni” non è rimasto nulla.
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