Il Pinocchio fuggiasco di Matteo Garrone. Tra Ernesto De Martino e Tim Burton
In sala dal 19 dicembre (per 01 Distribution), l’atteso “Pinocchio” di Matteo Garrone. Grezzo e gretto, non il film – che, al contrario, sfoggia la consueta cura e bellezza – ma il «mood» che lo significa. Grezzo come il burattino sbozzato. Gretto come il povero mondo contadino in cui nasce. E da dove fugge alla rincorsa della vita. Un mondo però che il regista rispetta, con un’adesione a un «realismo» tutto suo, fatto di un misto di fiabe allucinate, di freaks e creature alla Tim Burton ma fatto, soprattutto, di uno sguardo antropologico alla Ernesto De Martino…
Grezzo e gretto: è così il Pinocchio di Matteo Garrone (in sala dal 19 dicembre, prodotto da Archimede, Rai Cinema, Le Pacte e distribuito da 01).
Non il film – che, al contrario, sfoggia la consueta cura e bellezza alla quale ci ha abituato il regista – ma il «mood» che lo significa. Grezzo, dunque, come il burattino sbozzato da Geppetto (non del tutto burattino e non ancora bambino che porta sul viso le venature e le imperfezioni del ciocco di legno). Gretto, ancora, come il mondo in cui nasce, un povero mondo contadino, dove tutti i paesani, da Mastro Ciliegia in poi sono meschini d’animo, attaccati al denaro e sfruttatori del lavoro minorile.
Geppetto si prende l’inizio del film e della fiaba (alla quale Garrone resta fedele come non mai) e Roberto Benigni una volta tanto non benigneggia troppo ma tira fuori una prova d’attore misurata e toccante. «Babbo, babbo…» ma già scappa, Pinocchio (Federico Ielapi), alla rincorsa della vita e di tutto il circo del divertimento (il teatrino dei burattini con Mangiafuoco/Gigi Proietti e il Paese dei Balocchi) che si rovesciano in supplizi e dolore (dai piedi bruciati alla malattia, alla morte).
Scappa, Pinocchio, dall’inganno truffaldino del Gatto (Rocco Papaleo) e della Volpe (un bravissimo Massimo Ceccherini, cosceneggiatore assieme a Garrone). Evita, Pinocchio, il saccente Grillo parlante (Davide Marotta: ha ragione Mariarosa Mancuso a paragonarlo a uno Joda con le antenne), e la petulante Lumaca (Maria Pia Timo). Della Fata Turchina si sa (Alida Baldari Calabria da piccola e Marine Vacht da grande), così come di dottori Corvi e Civette (Massimiliano e Giancarlo Gallo), di Giudici gorilla (Teco Celio) che amministrano la giustizia punendo innocenti e assolvendo colpevoli (vi ricorda qualcosa?).
Scappa sempre Pinocchio. Perché il suo traguardo è lontano dal borgo natio e sta in fondo al mare, in quell’elemento liquido, dove nascono gli umani, che lo trasformerà: una delle più belle scene del film è l’annegamento di Pinocchio/Ciuchino e la neo-metamorfosi in burattino, favorita da un branco di pesci che lo circonda (tranquilli, non sono sardine!).
Fino al ventre del Pescecane, dove ritrova Geppetto, lo salva e salva se stesso diventando, finalmente, bambino. Scappa, Pinocchio, perché – c’è poco da dire – di quel mondo rurale povero e gretto non ne può più, anche se deve subirlo fino all’ultimo: come quando si rivolge all’ortolano Giangio (Domenico Centamore) e, per ottenere un po’ di latte per Geppetto stremato, viene legato al «bindolo» come un mulo e deve girare ore e ore per tirare su cento secchi d’acqua.
Però Matteo Garrone, quel mondo dal quale fa scappare il suo Pinocchio lo rispetta, con un’adesione a un «realismo» tutto suo, fatto di un misto di fiabe allucinate, di freaks e creature alla Tim Burton (egregio il lavoro di Prosthetic Make-up, ovvero maschere e protesi, di Mark Coulier) ma fatto, soprattutto, di uno sguardo antropologico alla Ernesto De Martino.
Non a caso, questo di Garrone, è un Pinocchio del Sud, dove a parlare toscano sono soltanto in due (Geppetto e la Volpe), mentre tutti gli altri sfoggiano cadenze e dialetti meridionali. E le location lasciano la Valdichiana per un lungo viaggio che va da Torre Astura alla Puglia.
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