Ipotesi di un amore. Come Bellocchio ha “usato” Gramellini

Il grande autore usa “Fai bei sogni” di Gramellini per parlare della morte. Dalla scomparsa della madre alla scoperta della verità, il film è un continuo tentativo di inquadrare la morte. Destinato al fallimento, ma che disegna un’ipotesi di amore. In sala dal 10 novembre per 01. Da vedere…

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Dicembre 1969. Massimo, nove anni, riceve la buonanotte dalla mamma, che – come sempre – gli sussurra all’orecchio: “Fai bei sogni”. È l’ultima volta che gli parla: al risveglio il bambino trova il padre in corridoio, sorretto da due uomini, e così apprende della morte della madre.

L’adattamento di Marco Bellocchio del romanzo autobiografico di Massimo Gramellini (leggi la recensione di Stefano Bocconetti), dal 10 novembre in sala, si porta dietro due equivoci da smentire: non è un film sul giornalismo, dice lo stesso regista, e non è un film su Gramellini, il protagonista si chiama solo Massimo. È un film su una perdita: Bellocchio gira il suo Mia madre nella forma di un dialogo con la morte.

Da bambino a uomo, la vita di Massimo si dispiega nel tardo Novecento: dall’Italia degli anni ’70 a quella degli anni ’90, da Canzonissima cristallizzata nel sorriso della Carrà ai telegiornali dominati dal mediatico Di Pietro, passando per la guerra in Bosnia e per un passato sempre più vicino.

Come “legge” Gramellini l’autore dei Pugni in tasca? Bellocchio espunge il lavoro giornalistico dello scrittore, sfronda gli spunti per lui irrilevanti e nelle pieghe dell’intreccio ritrova i suoi temi prediletti.

L’operazione condotta da Bellocchio ricorda, a memoria, un’altra simile nel cinema italiano dei nostri anni: quella di Bertolucci col romanzo Io e te di Ammaniti. In entrambi i casi – infatti – i registi non adottano una storia, non la fanno propria, non vi aderiscono ma la percorrono: ed è un percorso legato alle esigenze peculiari e al proprio fare cinema, che in quei libri trova solo lo spunto per imboccare una strada personale.

In Fai bei sogni Bellocchio trova la riscrittura dei fatti veri attraverso l’immaginazione, i sincretismi impossibili come i brigatisti che si fanno il segno della croce in Buongiorno, notte, che qui diventano un bambino che chiede a voce alta alla madre defunta di uscire dalla bara. Trova lo scorrere del tempo, simboleggiato dal fiume Trebbia in Sorelle Mai, che qui ritorna nel Po che trascina via un mazzo di fiori in una breve sequenza struggente. Trova, soprattutto, l’assenza della madre e la presenza della fine.

Il film “usa” Gramellini per parlare della morte: non importa della sua scrittura, è palese (“Ci sono ovvietà che sconvolgono”, gli dice una fan: non serve aggiungere altro). E la morte è sempre fuori campo: quella della mamma, che Massimo non vede e la cui verità gli viene negata; quella del magnate Athos, che si spara lontano dallo schermo; perfino la tragedia del grande Torino a Superga, raffigurata in una lapide commemorativa, una fine non accettata ma già storicizzata.

L’unico momento in cui la morte entra in campo è davanti all’orrore della Storia: in Bosnia, a Sarajevo, improvvisamente si vede e viene subito messa in posa, diviene immagine spettacolarizzata, materia di fotografia. Se la fine è sfuggente e invisibile, il movimento del protagonista è un continuo tentativo di metterla in quadro: Massimo pretende la verità, vuole “inquadrare” correttamente la morte della madre come attesta, alla fine, la soggettiva del suo sguardo che misura la distanza dal terreno al quinto piano.

Massimo, nel lutto rappreso, nel vuoto di chiarezza, conosce la svolta quando scrive su carta il suo dolore: nella risposta a una lettera sulla Stampa egli lo espone, con retorica da libro Cuore, lo getta in pasto al pubblico. È così che – paradossalmente – avviene la sua realizzazione: il dolore c’è, non si aggira né si supera, è possibile solo mitigarlo attraverso l’amore.

Infatti Bellocchio, in un sotterraneo rapporto di causa-effetto, collega la pubblicazione all’incontro con Elisa che avviene subito dopo. Di nuovo l’uomo vuole dirigere la morte, come accadeva nel caso Eluana di Bella addormentata: ma di nuovo dirigerla è impossibile, è un atto di hybris (“Come vi siete permessi?”, dice Massimo a chi gli ha mentito), sfugge alla disponibilità umana.

Perché la morte – come detto – si può solo mettere in quadro: il lutto non si supera, anzi si porta con sé, ma gradualmente si disegna un’ ipotesi sentimentale. Per questo le due danze del film, quella iniziale con la madre e quella finale con l’amante, sono danze gemelle: l’una prelude al dolore, l’altra decreta l’accettazione.

Non a caso nel flashback finale vediamo madre e figlio che giocano insieme a nascondino: la mamma esagera, non si trova più, sembra sparita ma poi riappare e trascina il bimbo con sé nel suo nascondiglio. La morte è il nascondiglio definitivo. La presa di coscienza porta una traccia d’amore: una madre che abbraccia un figlio, in penombra, appena prima della dissolvenza.