Se la cronaca nera diventa favola (nera). Il libro che ha ispirato “Sicilian Ghost Story”
È “Non saremo confusi per sempre” di Marco Mancassola (Einaudi), cinque racconti nati dalla cronaca, tra cui quello che ha ispirato “Sicilian Ghost Story“: lo spaventoso omicidio di Giuseppe Di Matteo, il bambino figlio di un pentito, fatto sparire nell’acido dalla mafia per punire il padre. Eppure c’è poesia in quelle pagine. Mancassola ci porta “dentro” il dolore, quello vero, ci porta dentro le origini delle sofferenze…
Di qua il racconto dei media, di là nulla. Di qua la spettacolarizzazione, la “porta-a-portizzazione” del dolore, della violenza. Di là il nulla. E ancora: di qua la narrazione delle tragedie, tutte uguali, anche nelle risposte emotive che devono suscitare. Di là, sempre niente.
E allora se si parte da un’idea semplice, che quelle reazioni emotive codificate non sono più sufficienti, una risposta, “un’altra strada” va cercata. Dove? È proprio qui, forse, il centro del libro Non saremo confusi per sempre di Marco Mancassola (cinque racconti editi da Einaudi, fra cui quello da cui è tratto Sicilian Ghost Story, il nuovo film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza). Che sei anni fa – quando uscì il volume – tentò una strada originalissima per raccontare, di più: per denunciare, l’omologazione delle narrazioni.
Perché Non saremo confusi per sempre è una raccolta di cinque fiabe, di cinque favole, alcune – va detto anche questo – più riuscite di altre. Tutte partono da fatti di cronaca, drammatici fatti di cronaca, che hanno segnato quella che un po’ tutti, facilmente, chiamano l’opinione pubblica (televisiva e no).
L’uccisione di un ragazzo tedesco ad opera di Vittorio Emanuele di Savoia, la morte del piccolo Alfredo Rampi, la fine (anzi: il re-inizio) di Eluana Englaro, l’assassinio ad opera di poliziotti di Federico Aldrovandi. E lo spaventoso omicidio di Giuseppe Di Matteo, il bambino figlio di un pentito, fatto sparire nell’acido dalla mafia per punire il padre, che ha dato, appunto, lo spunto per il film (Un cavaliere bianco).
Ma non si tratta dei cinque racconti che ci si può aspettare. Perché la cronaca, la ricostruzione dei fatti – che pure c’è – serve solo a delineare il quadro, il contesto. Le storie vanno avanti per conto loro. Diventano altro. Scoprono un altro finale possibile: così Alfredino – che tenne per la prima volta inchiodati gli italiani davanti alla tv ad “osservare” in diretta un dramma – non finisce nel pozzo artesiano che l’avrebbe ucciso. Lì, in fondo alla terra, incontra l’equipaggio di Jules Verne e prosegue con loro un viaggio infinito.
E anche il feroce omicidio mafioso del piccolo Giuseppe resta quasi in secondo piano nel libro. Perché la protagonista sarà la sua compagna di classe, una bambina segretamente innamorata di lui, che sceglierà di isolarsi da un mondo fatto di complicità e connivenze con gli assassini. E sarà capace di ridar vita al bambino, trasformandolo in un super eroe dei fumetti.
C’è poesia in quelle pagine. C’è un linguaggio a suo modo innovativo nell’innovazione: perché sia che ci sia la voce narrante fuori campo, sia che parli il protagonista, le parole, le frasi sono semplici, dirette. Insomma, mai “tranquille” come imporrebbe la tradizione delle favole.
E con questo meccanismo Mancassola forse ci porta “dentro” il dolore, quello vero, ci porta dentro le origini delle sofferenze. Prova a farci riflettere su come anche il racconto delle tragedie non abbia quasi più nulla di umano. E che quell’umanità andrebbe cercata altrove.
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