La dura legge del West oltre ogni limite umano

Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta” è il libro di Michael Punke che ha ispirato il nuovo film di Alejandro Inarritu, in sala dal 16 gennaio. Una storia archetipica di sopravvivenza che affonda le sue radici nei valori fondanti del mito americano: amicizia virile, lealtà, senso della giustizia. Insomma, una storia di “uomini veri”…

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Non meraviglia che il film The revenant di Alejandro Inarritu, in sala dal 16 gennaio, sia stato preceduto da un battage incentrato sulle scene crude e raccapriccianti, e sulle condizioni estreme a cui sarebbe stata sottoposta l’intera troupe. Il film è tratto dal libro di Michael Punke Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta (Einaudi 2014, traduzione non eccelsa di Norman Gobetti), che inizia con la descrizione davvero raccapricciante dell’aggressione di un orso a colui che diventerà il protagonista della storia, ridotto a una informe poltiglia di carne maciullata ma, nonostante tutto, ancora in vita.

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Il minuscolo drappello di cacciatori di pellicce, con cui Hugh Glass si era accampato nella riva di un fiume, non può aspettare la sua morte quasi certa, e decide di proseguire il cammino onde evitare attacchi degli indiani e altri pericoli.

I due che vengono incaricati dietro compenso di vegliarlo fino alla fine per poi dargli una sepoltura cristiana, dopo un paio di giorni decidono di abbandonare il nostro eroe al suo destino, non senza prima avergli sottratto fucile, coltello e polvere da sparo, cioè le uniche possibilità di sopravvivere in caso di un’improbabile ripresa.
Invece la ripresa avviene, e da qui ha inizio una lunga odissea – la storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta – che porta il nostro eroe a misurarsi con tutte le possibili minacce alla sopravvivenza: natura estrema e inospitale, animali, indiani agguerriti, fame, stanchezza, gelo e intemperie, fino all’inatteso finale, neanche troppo sorprendente in verità se si considerano gli stereotipi del West selvaggio e di tutto quello che ne è seguito.

Come si può immaginare siamo nel cuore delle storie archetipiche americane, e non solo, da Il richiamo della foresta a Robinson Crusoe (o Cast away per restare al cinema), da Corvo rosso non avrai il mio scalpo a Balla coi lupi e Into the wild, con ricco condimento di nuova frontiera, lotta per la sopravvivenza e valori fondanti del mito americano: amicizia virile, lealtà, senso della giustizia (giustizia naturale più che giustizia da tribunali, anche se il finale è ambientato ancora una volta in un’aula di tribunale, seppure improvvisata, tanto per rispettare i cliché del genere), ma anche amore per la natura primordiale e congenito senso di colpa per le vittime designate della conquista del West, cioè i nativi americani.

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“A ovest di St Louis non esistevano diritti acquisiti – si legge a un certo punto del libro –. Tuttavia i fieri individui che componevano la sua comunità di frontiera erano legati dal ferreo vincolo della responsabilità collettiva. Sebbene non ci fossero leggi scritte, esisteva una sorta di diritto naturale, un patto da rispettare che trascendeva gli interessi egoistici. Era di una profondità biblica, e la sua importanza andava aumentando man mano che ci si inoltrava nella natura selvaggia: in caso di bisogno, dovevi tendere una mano sollecita ad amici, compagni e finanche estranei. Perché un giorno anche la tua sopravvivenza poteva dipendere dalla mano tesa di qualcun altro”.

In queste poche righe è racchiusa la morale di una storia che piacerà agli amanti dell’avventura e che sembra scritta apposta per ispirare un film con protagonista Leonardo Di Caprio (sebbene il libro descriva personaggi ricchi di chiaroscuri che forse sarebbero più adatti alle sue corde): una storia di quelle che traggono ispirazione ma lasciano anche il segno nella mitologia americana.