Hans Fallada, il libro più importante sulla resistenza al nazismo
Passato alla Berlinale e ora in sala l’adattamento del romanzo “Ognuno muore solo” di Hans Fallada. Un testo sconvolgente che Primo Levi definì ” il libro più importante che sia mai stato scritto sulla resistenza tedesca al nazismo”…
È raro imbattersi in un romanzo della qualità e della forza di Ognuno muore solo: il prodigioso Hans Fallada (morto nel 1947, giusto dopo la stesura del libro), narratore come pochi, capace di picchi di imperioso coinvolgimento del lettore, nei dettagli, nelle atmosfere, come nell’introspezione dei personaggi, racconta, facendole “vedere”, tutte le infinite “miserie” e l’orribile sprofondo del Terzo Reich.
Trascina, poco alla volta, ma letteralmente, mani e piedi, cuore e cervello, nella Berlino plumbea dell’ultima parte della dittatura hitleriana: un inferno dantesco, coi suoi tanti gironi, fatto di sadici soprusi, di violenze inimmaginabili, fisiche e mentali, di controllo della popolazione, di smarrimento d’ogni morale. Un universo che si sta sfaldando, ma che ancora non lesina colpi letali alla dignità degli uomini. Con un partito che tutto controlla, a cui tutti riferiscono, con la Gestapo che si occupa di ogni lavoro sporco, con la brutale soppressione di chiunque dimostri anche solo un minimo cenno di “non adesione”. Una immensa prigione.
Non è un caso, dunque, che “il libro più importante che sia mai stato scritto sulla resistenza tedesca al nazismo”, come lo definì Primo Levi, abbia conosciuto diverse trasposizioni cinematografiche e televisive, fino alla più recente per la regia di Vincent Pérez, interpretata da Emma Thompson, Brendan Gleeson e Daniel Brühl, col titolo Alone in Berlin che affronerà la corsa all’Orso d’oro nell’imminente Berlinale 2016 (dall’11 al 21 febbraio).
Libro e film raccontano dunque la vera storia – solo leggermente romanzata da Fallada, che ebbe in mano i dati processuali -, dei coniugi Otto e Anna Quangel, una storia al contempo minima e sconvolgente nella sua potenza.
I coniugi vennero arrestati e poi giustiziati dal regime nazista per aver disseminato nei palazzi di Berlino delle “semplici”, anonime cartoline che invitavano la popolazione ad agire contro la dittatura, a ribellarsi.
I coniugi Quangel erano tedeschi estremamente ordinari ed ordinati, gente comune, cresciuti nel regime, che di colpo, dopo la perdita del figlio nelle guerre volute da Hitler, tentarono di divenire la polvere in grado di inceppare l’ingranaggio dell’infinito terrore. Una lotta davvero inutile, sembrerebbe, se si pensa che i cittadini che rinvennero le cartoline le portarono poi, con grande solerzia e spavento, al più vicino commissariato. Ma fu davvero così? In realtà, questa “inutile” ribellione, portata avanti da una dimessa coppia di anziani coniugi produsse frutti insperati tra i concittadini berlinesi, giusto nell’intimo di quelli che vivevano nell’icubo del dominio e – soprattutto – anche tra quelli che il dominio esercitavano, lucrando status e rendite.
La lotta dei Quangel aprì squarci imprevedibili – imprevedibili per i coniugi stessi – nelle coscienze recondite, in simulacri dai nervi già scossi, mentre tutto il regolamentato orrore, che appariva inscalfibile, immutabile, finalmente traballò: l’immensa prigione venne scossa come da un terremoto.
Nel tramonto d’ogni regime però, i crimini divengono, se si può, ancora più sconvolgenti ed abbietti: il giovane nazista Persicke, condomino dei Quangel, assecondando voglie da arrampicatore, deve condannare a morte certa il suo stesso padre, la cui condotta da ubriacone lo fa vergognare; il commissario Escherich, l’ufficiale modello della Gestapo, l’acuto investigatore incaricato di indagare sul caso delle cartoline, fallisce, viene rinchiuso e seviziato dai suoi stessi commilitoni per punizione, si prende infine la rivincita di catturare i Quangel, ma, allora, paragonando la propria vita alla loro, può arrivare solo a comprendere l’inutilità del male su cui ha poggiato l’architrave della propria esistenza.
Intorno, prima e durante l’epilogo, solo una brulicante, abbrutita umanità che vive alla giornata, che ruba quando può, si ubriaca quando può, fa la spia per ottenere le ricompense del caso, si appropria di beni appartenuti ad ebrei internati, che denuncia fatti, anche inventati, pur di acquisire meriti. E famiglie accatastate, promiscue, alla rinfusa, malvagie o succubi, dove, per imitazione, per disegno sociale, vige solo la legge del più forte e del più immorale: il germe di un nazismo sociale introiettato fin nelle mura domestiche.
Le cartoline dei Quangel, coppia che peraltro solo in questa “missione” ritrova la ragione di un sentimento ormai perso nel tempo, tra incomunicabilità e freddezza, scritte dal rude Otto con mano incerta ma orgogliosa, e consegnate insieme, con infiniti tremori e precauzioni, cartoline recanti messaggi “in bottiglia”, generici ma infine allarmanti come scritte sui muri, non vengono lette da nessuno, ma spaventano tutti. Il Partito, soprattutto, non può ammettere che qualcuno abbia questa impudenza di manifestare idee contrarie al regime.
I Quangel sono consapevoli fin dall’inizio che le cartoline, singolarmente prive di indirizzo del destinatario, li condurranno alla forca, ma hanno deciso che va bene così, che ne hanno già abbastanza di quel mondo di sconforto e di repressione.
Quel mondo, anche sotto i colpi di cartoline, o per implosione, sta crollando e crollerà; l’orrore sta per essere consegnato alla storia, per i suoi giudizi. Il comportamento degli uomini in tali circostanze, il “contagio del male”, come lo definì Primo Levi parlando dei lager, che rende tutti complici nella malvagità, deve essere ancora investigato perché riguarda tutti. Ognuno vive e muore solo e deve darsi una ragione, anche morale, per entrambe le cose.
In un momento di sconforto, in carcere, quando la fine è ormai certa, il dottor Reichhardt, un direttore d’orchestra con il quale il ruvido Otto, separato dalla moglie, ha occasione di condividere la cella, lo rincuora dalla disperazione che le sue cartoline non siano servite a nulla, come gli ha rivelato spietatamente il commissario Escherich: “Perlomeno lei ha resistito al male. Non è diventato malvagio insieme con gli altri. Lei ed io e i molti che sono in questa casa e molti, moltissimi in altre case simili e le decine di migliaia nei campi di concentramento continuano a resistere ancora, oggi, domani…”.
Resistere si può, ogni modo è utile. Ogni “corrispondenza”, in fondo, trova il suo destinatario.
Enzo Lavagnini
Regista, sceneggiatore, produttore e critico cinematografico. Suoi i documentari: "Un uomo fioriva" su Pasolini e "Film/Intervista a Paolo Volponi". Ha collaborato con Istituto Luce, Rai Cultura e Premio Libero Bizzarri. Tra i suoi libri, "Il giovane Fellini" , "La prima Roma di Pasolini". Attualmente dirige l'Archivio Pasolini di Ciampino
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Complimenti Lavagnini. Storia tragica nascosta, ancor oggi piena di profondi e straordinari spunti di riflessione!
Aspetto di vedere Alone in Berlin qui in Italia. La presenza del premio Oscar Emma Thompson è già una garanzia.