Macbeth, l’eterno ritorno al cinema

In sala dal 5 gennaio per Videa il film di Justin Kurzel, con Fassbender e Cotillard, già passato al Festival di Cannes. Una nuova versione della tragedia di Shakespeare che ha già ispirato giganti: Welles, Kurosawa, Polanski, Tarr

image005(2)Alla chiusura del Festival di Cannes 2015, si fa spazio Macbeth di Justin Kurzel, ultimo film del concorso. I protagonisti sono Michael Fassbender e Marion Cotillard (i coniugi Macbeth), con David Thewlis nel ruolo di Duncan e Paddy Considine come Banquo. Il regista australiano riporta sullo schermo la tragedia composta da Shakespeare tra il 1605 e 1608. È solo l’ultima trasposizione di una lunga serie, sfida complessa su un testo già reinterpretato da alcuni dei maggiori cineasti di sempre. Versioni di Macbeth sono sparse ovunque, non si ha qui la pretesa di contenerle tutte. In principio fu Orson Welles (Macbeth, 1948): primo film della trilogia shakespeariana (gli altri sono Otello e Falstaff), quinta opera di Welles dopo i colossi Quarto potere e L’orgoglio degli Amberson, fu girato in 3 settimane negli studi Republic in California, su commissione del produttore Herbert Yates con una piccola somma. Il low budget di Welles, prima tagliato a 80 minuti e poi riportato a 107, vede lui stesso nella parte principale, una messinscena “povera” che rende la necessità virtù, una storia debordante e lunare che libera indizi espressionisti.

Quasi un decennio dopo arriva Akira Kurosawa (Il trono di sangue, 1957). Il cineasta orientale ricolloca il testo nel Giappone del XVI secolo, assegnando il ruolo principale a Toshiro Mifune. Sfronda i dialoghi, riduce le tre streghe a una, aumenta le invenzioni visive, cesella un’atmosfera cupa da incubo medievale. Ottiene il riconoscimento unanime per una delle trasposizioni migliori.

Una falsa pista arriva da Andrzej Wajda, che firma Lady Macbeth siberiana nel 1962: il suo Macbeth non è emanazione del Bardo, bensì è tratto dal racconto lungo Una lady Macbeth del distretto di Mtsensk di Nikolaj Leskov. La storia diverge dalla tragedia, seguendo la parabola di una donna nella Russia dell’Ottocento che pianifica l’omicidio del marito e del suocero. L’omonimia shakespeariana è solo una citazione, già contenuta nella fonte letteraria.

Torna la reinterpretazione del drammaturgo con Roman Polanski (Macbeth, 1971): una versione lunga e articolata, 140 minuti, con i volti di Joe Finch e Francesca Annis. Il regista divenuto aggettivo (“polanskiano”), coltivatore dello strano, l’obliquo, la paranoia anni ’70 lo filma dopo Rosemary’s Baby e prima de L’inquilino del terzo piano: con questi condivide il grottesco e l’orrore, a riposo dietro la facciata, sempre pronti a manifestarsi. I delitti, lo splatter, le mani insanguinate di Lady Macbeth sono gli elementi che nutrono la trasposizione.

In Ungheria c’è la versione del grande Béla Tarr (Macbeth, 1982) girata per la televisione di Stato. 72 minuti, due piani sequenza, rispetto filologico della fonte: Tarr dispiega il suo cinema della fissità, rigoroso senza compromessi, facendo vivere il testo nell’inquadratura – potenzialmente infinita -, al solito invitando lo spettatore ad entrare in una situazione, a farsi carico di uno sguardo nuovo, sia su un classico sia su un mondo.

Da noi il film che va assolutamente visto è Macbeth horror suite di Carmelo Bene, 1997. È “solo” una ripresa effettuata dalla Rai dello spettacolo teatrale allestito da Bene, racchiuso in 60 minuti, ma basta per cogliere della versione del regista/scrittore/pensatore e il suo effetto disaramente: Bene è in scena, in bianco al centro del palco, con vicino una sola Macbeth ad abitare il testo, proponendo – come d’uso – una reinstallazione di rottura intransigente. Entriamo nel 2000 con altri Macbeth minori. Come ShakespeaRe-Told: Macbeth di Mark Brozel (Gran Bretagna, 2006) con protagonista James McAvoy, oppure Macbeth – La tragedia dell’ambizione di Geoffrey Wright (Australia, 2006) con Sam Worthington e la storia calata nella periferia di Melbourne oggi. Per Dario Argento è un pallino: in Opera (1987) va in scena il Macbeth, testo “maledetto”, mentre uno psicopatico dissemina omicidi in coreografia argentiana. Inoltre lo ha appena portato a teatro (Macbeth, 2015) esasperando, si dice, il lato horror e grand guignol. Ma, oltre ai titoli “ufficiali”, esiste anche un altro Macbeth: quello non detto, occulto, che scorre in filigrana nel filmare di tanti registi. Viene citato Macbeth in Elephant di Gus Van Sant, perché la strage di Columbine è evento fatale del nostro contemporaneo. E c’è molto Macbeth in Eastwood, soprattutto in Mystic River, nell’idea che la colpa è segno indelebile che non si lava. Justin Kurzel nel precedente Snowtown (2011) ha già inscenato il rapporto tra un ragazzo e un serial killer, con spiazzante normalità, sospendendo il giudizio: una ragione per aspettare la sua versione.