Nel taxi di Panahi a scuola di cinema e libertà
In sala il nuovo lavoro del regista iraniano condannato al silenzio dal regime. Un piccolo gioiello di realismo ed ironia in difesa della libertà di espressione e contro ogni censura. Vincitore dell’Orso d’oro è nei cinema per la neonata distribuzione di Valerio De Paolis. Da non perdere…
Mentre Teheran attende in pompa magna l’arrivo sugli schermi di Muhammad, kolossal di “regime” sul profeta – di passaggio anche al festival di Montreal- nelle sale italiane è appena arrivato un altro film iraniano che per il “regime” non sarebbe dovuto neanche esistere.
Stiamo parlando, infatti, del nuovo piccolo gioiello di Jafar Panahi, Taxi teheran, realizzato clandestinamente dal regista iraniano condannato dal governo a 20 anni di silenzio. Ossia il divieto di lasciare il paese, di rilasciare interviste e soprattutto, il più pesante per un artista: il divieto di girare film. Tutto questo dopo essere stato arrestato più volte, “colpevole” di aver partecipato alla commemorazione di una giovane dimostrante uccisa dalla polizia, nel corso delle manifestazioni contro la rielezione di Ahmadinejad.
Era il 2009 è da allora Panahi è diventato il simbolo della lotta del popolo iraniano. Cannes, Venezia, Berlino, i più grandi festival internazionali, insomma, hanno fatto a gara per ospitarlo in giuria, lasciando simbolicamente la sua sedia vuota. Ma soprattutto hanno accolto i sui film della “prigionia”, girati con mezzi di fortuna, con l’aiuto di coraggiosi colleghi e poi “esportati” clandestinamente su pennette Usb.
Così è stato per Questo non è un film (2011), diario di un regista in “cattività”, chiuso nel suo appartamento. Per Closed Curtain (2013) metafora “pirandelliana” di un regista in cerca di personaggi, interrotto continuamente nella sua ricerca creativa e per quest’ultimo, Taxi teheran, Orso d’oro a Berlino e nelle nostre sale per la neonata distribuzione, Cinema, di Valerio De Paolis.
Stavolta, diversamente dai precedenti, Jafar Panahi si mostra frontalmente indossando i panni di un tassista in giro per le vie affollate di Teheran. Davanti a lui una telecamera piazzata sul cruscotto che riprende tutto quello che accade nell’abitacolo dell’auto in un costante gioco fra realtà e finzione, sulle corde dell’ironia. Ecco dunque salire sul taxi collettivo – un’istituzione nella capitale iraniana – un nutrito gruppo di varia umanità. Vecchiette superstiziose, ladruncoli, un’avvocata che si occupa di diritti civili e persino una donna col marito morente che invoca tra le lacrime la ripresa in diretta del testamento dell’uomo. Tanti di loro salendo sul taxi riconoscono il celebre regista complimentandosi con lui e chiedendo consigli. Esilarante lo scambio di battute con un pusher di dvd che lo “trascina” da un suo cliente, appassionato di cinema e alle prime armi come regista. Tra tutti primeggia, però, la figura della nipotina di Panahi – quella vera, che ha ritirato al suo posto il premio alla Berlinale – una ragazzina inarrestabile che battibecca con lo zio, telecamera alla mano, sulle leggi – imposte dal regime e dalle sue insegnanti – per girare film “distribuibili”.
Pedinando la realtà, semplicemente, così come “deve fare” il cinema – il consiglio è dello stesso regista – Taxi teheran offre uno spaccato della società iraniana, sempre più distante dall’oscurantismo imposto dal regime degli ayatollah. Affidando all’ironia la carica di denuncia e la “lezione” di libertà contro ogni censura.
Gabriella Gallozzi
Giornalista e critica cinematografica. Fondatrice e direttrice di Bookciak Magazine e del premio Bookciak, Azione!. E prima, per 26 anni, a l'Unità.
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