Operai e colletti bianchi, gli ultimi umani prima dei robot. Il lavoro oggi alla Berlinale

Presentato alla Berlinale il documentario del regista tedesco Jonas Heldt, “Automotive”. Un viaggio dentro le cosiddette “fabbriche intelligenti”: Sedanur, vent’anni, è una ragazza che lavora nello stabilimento Audi ad altissima tecnologia, al tempo della rivoluzione digitale, in attesa di essere sostituita da un algoritmo. Così come Eva, colletto bianco delle risorse umane che cerca nuovo personale per automatizzare una parte della logistica, consapevole anche lei che anche il suo lavoro è a brevissimo termine…

 

“Ti immagini a lavorare in un ufficio?”. “No, sono un’operaia. La mia testa non è abbastanza evoluta per studiare all’università”. A dirlo è Sedanur, vent’anni, lavoratrice nella fabbrica di automobili a Ingolstadt, nella Land della Baviera, una città poggiata sulle rive del Danubio che ospita lo storico stabilimento dell’Audi. Il luogo in cui parla è il film Automotive, documentario del regista tedesco Jonas Heldt presentato alla Berlinale in Perspektive Deutsches Kino, la sezione del festival tradizionalmente dedicata al cinema tedesco.

Automotive fa un passo avanti nel cinema post-operaio di oggi. Il regista parte da un interrogativo: quanto vale il lavoro al tempo della rivoluzione digitale? Per rispondere parla con gli interessati, i lavoratori, apre un’inchiesta, indaga la realtà. L’oggetto del suo scrutare sono le cosiddette “fabbriche intelligenti”, ovvero quelle in cui l’automazione e le nuovissime tecnologie stanno gradualmente sostituendo gli uomini. Ad oggi però i lavoratori nella fabbrica hi-tech sono diminuiti ma ancora restano, costretti a integrarsi con macchinari sempre più evoluti.

Jonas Heldt sceglie di fatto due protagoniste, entrambe donne: una è Sedanur, che trascorre le notti a selezionare i pezzi delle macchine sulla catena di montaggio dei robot. L’altra è Eva, 33 anni, un colletto bianco che lavora per Audi nella gestione delle risorse umane, e in particolare cerca nuovo personale per automatizzare una parte della logistica. Lei stessa, candidamente, afferma che un giorno perderà l’impiego perché sarà sostituita da algoritmi, ne è consapevole. Sedanur e Eva sono due facce della stessa medaglia: due ragazze della stessa generazione, forse l’ultima del lavoro umano, che sono sostituibili e prima o poi verranno rimpiazzate.

Il cineasta inquadra l’operaia alla catena di montaggio, o meglio un’evoluzione della stessa, raffigurandola come una delle ultime sulla strada per la meccanizzazione totale. Vediamo uomini che manovrano complesse strutture meccaniche, in questa fase di transizione: i robot richiedono ancora il controllo umano, ma per quanto? Quando verranno totalmente sostituiti?

Audi ha già annunciato il taglio di un decimo della forza lavoro nel prossimo futuro. Ma Automotive non porta una posizione luddista, contro le macchine, tutt’altro: apre una riflessione sulla terra di mezzo, quella che viviamo oggi, in cui il segno umano convive con l’acciaio dei robot che si espande.

Un film di Steven Bognar e Julia Reichert, American Factory, ha appena vinto l’Oscar come miglior documentario (in Italia disponibile su Netflix): anche in quella indagine sull’ex fabbrica della General Motors in Ohio acquistata dai cinesi, non a caso, nell’ultima parte si lancia un monito sulla meccanizzazione incipiente, sui robot che ci sostituiranno domani. Automotive potrebbe essere il suo spin-off: un film a suo modo apocalittico.