Addio Carlos Saura quella luce nel buio del franchismo. Il regista spagnolo aveva 91 anni
È morto a 91 anni Carlos Saura. Scrittore, fotografo, ma soprattutto regista, tra i punti più alti del cinema d’autore spagnolo. Negli anni del franchismo, fu tra i registi che sfidarono il regime con i film. Una carriera lunga sessant’anni, con più di cinquanta titoli e mille influenze, su tutte la musica…
L’Accademia del cinema spagnolo ha scelto “fondamentale” come aggettivo per descriverlo, i Premi Goya, che hanno fatto appena in tempo a recapitargli a casa la statuetta del premio alla carriera, hanno scelto invece “l’ultimo classico”. Quel che è certo è che Carlos Saura, morto il 10 febbraio a 91 anni, è stato qualcosa di veramente grande per il cinema spagnolo.
Non che per il cinema europeo i film del grande regista non siano stati rilevanti, tutt’altro. Ma è proprio nella sua provenienza, la Spagna franchista, che il cinema di Saura si è rivelato grande. Nacque nel 1932 e se questa data non dice quasi nulla negli altri paesi, in Spagna fu invece un punto di svolta: la Seconda Repubblica, forse il passaggio meno cruento dalla monarchia alla repubblica che la storia ricordi.
Saura ci nacque dentro, a Huesca, nel Nordest aragonese, ma subito trasferendosi a Madrid, al seguito del padre, nominato segretario dell’allora ministro delle finanze socialista. Poi, il dramma: la guerra civile, la morsa franchista che attanaglia il paese, la dittatura. Anni dopo avrebbe detto che quei ricordi li aveva esorcizzati attraverso i film.
Partì in realtà dalla fotografia, una passione che non smise mai di coltivare. Nella sua casa della Sierra madrileña ci sono ancora i suoi archivi, tra gli scatti anche un momento di risate assieme a Buñuel. Perché non è stato mai un monogamo del cinema, Saura, ma si è dedicato a tanto altro, letteratura compresa, con alcuni romanzi. Il titolo di uno di questi, Quella luce!, commuove ancora: era il grido che si sentiva spesso durante la guerra, in cui una luce accesa poteva essere un involontario segnale per aerei e soldati pronti ad ammazzare.
Alla dittatura scappa con il cinema, prima rifugiandosi nelle sale e poi facendolo, con piccoli cortometraggi e infine con un documentario che lo segnala sulla mappa europea. Nel 1960 è già a Cannes, col suo esordio, Los golfos, nell’anno in cui Simenon fa trionfare La dolce vita. Alla Croisette, nel corso degli anni, sarà ospite fisso, vincendo anche due Gran premi della giuria, il primo per La cugina Angélica nel 1974 e il secondo nel 1976 per Cría cuervos.
Sono i primi passi di una filmografia sterminata, che supera i cinquanta titoli e raramente lascia passare un anno senza un lavoro girato. Ancora negli ultimi tempi, prima che una brutta caduta ne aggravasse le condizioni, Saura progettava un film su Picasso. L’ultima tappa della sua lunga carriera rimarrà Las paredes hablan, una straordinaria riflessione sul ruolo dei muri nell’arte, dalle grotte preistoriche ai graffiti contemporanei.
Più che ai romanzi, il suo cinema si rivolse molto alla musica. Quella tradizionale, con i film sul flamenco, del 1995 prima e del 2010 poi (senza scordare Salomé, storia di una compagnia di flamenco che deve mettere in scena l’episodio biblico), e sul tango, nel 1998. «Il ballo, soprattutto il flamenco, ha qualcosa di magico», spiegava. Negli anni Ottanta alla musica avrebbe dedicato una trilogia: Nozze di sangue (che nasceva da García Lorca), Carmen (da Bizet e quindi, per riflesso, da Mallarmé), L’amore stregone.
Il giogo franchista stritola fino al 1975, ma nel cinema si mostra incerto. Saura è tra i registi che maggiormente lo mettono in difficoltà. Già col suo secondo film, I cavalieri della vendetta, si ispira al Salvatore Giuliano di Rosi e apre il film con sei esecuzioni per garrota, affidando a Buñuel la parte del boia. Il regime censura, non sarà l’unica volta ovviamente. La cugina Angélica passa per tre ordini di riscrittura della sceneggiatura e poi per una proiezione alla presenza di sei ministri prima di poter essere proiettata.
Sono i mesi caldi che seguono alla morte di Carrero Blanco, con un Franco ormai moribondo. Ma anche prima Saura si era dovuto rifugiare in allegorie complesse per parlare delle ipocrisie e della società spagnola mummificata dalla dittatura. Nascono così La tana (1969), Il giardino delle delizie (1970), Ana e i lupi (1972). Tutti germogliati dalla collaborazione produttiva con Elías Querejeta e da quella artistica con Geraldine Chaplin, figlia di Charlie, una delle sue quattro mogli.
Se Saura ha lasciato un solco profondo è stato in effetti non solo per essere stato un ottimo cineasta, ma proprio per il modo in cui ha attraversato, da regista, gli anni bui della Spagna di Franco. In questo sta la sua grandezza, figlia ma diversa da quella del grande padre del cinema spagnolo, Buñuel. Saura non un uomo del suo tempo, ma un uomo nel suo tempo.
Proprio per questo, forse, le parole che scelse di pronunciare negli ultimi tempi, parlando della guerra civile, suonano ancora più pesanti. «La mia paura è che quello scontro torni a succedere in Spagna: non abbiamo imparato nullla». Il suo cinema, però, può continuare a insegnarci, se non altro, come non piegarsi agli orizzonti disperati e disperanti della storia.
Tobia Cimini
Perditempo professionista. Spende il novanta percento del suo tempo leggendo, vedendo un film o ascoltando Bruce Springsteen. Nel restante dieci, dorme.
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