Aldo Braibanti, un martire moderno dell’Italia reazionaria. In un doc necessario in corsa ai David
Selezionato tra i dieci documentari in corsa ai David di Donatello 2021, “Il caso Braibanti” di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, quest’ultimo già autore di una pièce dedicata al grande e appasionato intellettuale e poeta antifascista, vittima di uno dei casi giudiziari più vergognosi della storia recente. Un processo alle istanze di quel ’68 che voleva mettere in discussione proprio la famiglia e la libertà sessuale…
Nel 1964 fu depositata presso la Procura della Repubblica di Roma una denuncia a carico di Braibanti Aldo per aver assoggettato fisicamente e psichicamente Sanfratello Giovanni, l’allievo col quale viveva una storia d’amore osteggiata con ogni mezzo dalla famiglia del giovane.
Si scrive così l’incipit di una delle pagine più nere e infamanti della storia italiana. Infamante l’accusa e infamante per una nazione che si proclama civile.
Il nome di Aldo Braibanti, oggi, non dice granché ai più, a conferma della memoria corta e la coscienza sporca. Un tandem che si potrebbe definire sport nazionale.
Di questa vicenda parla Il caso Braibanti un documentario di grande valore civile diretto e scritto da Carmen Giardina e Massimiliano Palmese. Palmese è anche autore dell’omonima pièce teatrale della quale ampi e strazianti brani sono contenuti nella trasposizione cinematografica. Il film aprirà il 13 ottobre la 18a edizione del Florence Queer Festival, dopo essere stato premiato al Pesaro FilmFest, al Salina DocFest e in tour con passaggi mirati nelle sale.
Parlando di un film si spende sempre troppo facilmente il termine “necessario” ma se c’è un’opera per la quale non è retorico dirlo è proprio Il caso Braibanti; va riconosciuto il merito agli autori di aver dissepolto una storia che ancora oggi deve rimordere la coscienza nazionale.
Antifascista fin dai giorni del liceo Romagnosi a Parma e poi attivo nella Resistenza a Firenze, dove venne preso e torturato presso Villa Triste dalle famigerate bande Koch e Carità, per diventare poi membro del Comitato centrale del Pci, da cui uscì dopo i fatti d’Ungheria del ’56.
Aldo Braibanti è stato un personaggio di primo piano per la cultura d’avanguardia di quegli anni. Un brillante e riconosciuto intellettuale, filosofo, poeta, artista visivo, pedagogo. Fu con Sylvano Bussotti e altri l’artefice del Laboratorio Artistico di Castell’Arquato (PC), un importante centro di sperimentazioni artistiche, teatrali e musicali. Firma dei Quaderni piacentini e esperto appassionato di mirmecologia, lo studio delle formiche.
Quella persona che Pasolini definì “mite”, in un’accorata difesa dell’amico, vide il suo mondo devastato in un momento, come racconta Alberto Grifi in un’intervista a il Manifesto: “Il padre del ragazzo accompagnato da alcuni energumeni irruppe nella pensione dove i due vivevano, fece immobilizzare Aldo e trascinò via il figlio per chiuderlo in un ospedale psichiatrico a Verona, dove gli fecero 40 elettroshock e 8 shock insulinici in due anni perché dimenticasse tutto”.
Il 12 giugno 1968 si apre il processo, uno dei casi giudiziari più seguiti e dibattuti nell’Italia di fine anni Sessanta, le cui cronache risultano a dir poco agghiaccianti per la ferocia e i toni morbosi coi quali la pubblica accusa infierisce sull’accusato.
Tra i momenti più agghiaccianti del film c’è proprio lo scherno omofobo delle dichiarazioni degli avvocati e dei periti di parte, e di quanto esce dalle relazioni degli psichiatri che ebbero “in cura” Giovanni Sanfratello.
All’epoca, il mondo della cultura insorse in difesa della vittima di quella farsa. Dacia Maraini, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Alberto Moravia, Umberto Eco, Carmelo Bene, Marco Pannella, Cesare Musatti, solo per dirne alcuni. È significativo che i legali della famiglia Sanfratello avessero sporto denuncia per plagio, reato quanto mai ambiguo e facile da distorcere, oltre che privo di precedenti giuridici. Appellarsi ad un ipotetico reato, previsto dal Codice Rocco, scritto in epoca fascista, per punire un’intollerabile relazione omosessuale.
Il processo, confezionato ad arte dalla famiglia Sanfratello e cavalcato strumentalmente dalla destra più retrograda, dal clero più tradizionalista e bigotto, e da una magistratura sfacciatamente consenziente è anche un processo alle istanze di quel ’68 che voleva mettere in discussione proprio la famiglia e la libertà sessuale.
In un’intervista successiva al rilascio, Aldo si riconosce come “utile idiota”, per significare quanto pretestuosa fosse tutta la vicenda aggiungendo come, per tutta la durata del processo, avesse cercato di dissociarsi dal suo corpo nell’incredulità per una condizione tanto inspiegabile e ingiusta.
Purtroppo, nonostante la pubblicità data al processo, ben presto l’eco della vicenda venne silenziato dagli eventi che immediatamente dopo segnarono la storia italiana. Le prime pagine dei giornali tornarono a riempirsi con le contestazioni giovanili, con le lotte sindacali sfociate nell’autunno caldo del ’69 e, soprattutto, con i primi vagiti di quella che sarà la “strategia della tensione”.
Ma quello di Braibanti fu un caso molto scomodo anche per i partiti della sinistra per il grave imbarazzo nell’affrontare temi “immorali” come l’omosessualità, giudicata una deprecabile “degenerazione piccolo borghese”. E, dal punto di vista propagandistico, Braibanti era per la sinistra una figura indifendibile perché utile alla tesi che voleva i comunisti corruttori della gioventù italiana e dei valori della famiglia tradizionale. Per questo la sinistra di quei giorni è stata (giustamente) accusata di aver tenuto, nei confronti di Aldo Braibanti, un atteggiamento tiepido e latitante. Oltre a questo Aldo negli ultimi anni della sua militanza nel Pci era stato in grave rotta di collisione col partito sul tema del Centralismo.
Il caso Braibanti è un’opera di grande valore civile. Un doc di struttura tradizionale, fra le testimonianze di chi c’era e lo conosceva bene (tra gli altri, il nipote Ferruccio Braibanti, Piergiorgio Bellocchio, Lou Castel, Dacia Maraini, Maria Monti), i documenti d’epoca, e la ricostruzione teatrale con la lettura di stralci degli atti processuali, che aggiungono pathos al realismo del documentario.
Gli occhi umidi del nipote Ferruccio e la tenerezza nel raccontare lo zio, portano a pensare che la vicenda (come il doc) possa essere riassunta con un solo termine: PASSIONE. Il sostantivo del quale Aldo Braibanti ha vissuto tutti i significati possibili: la passione per i suoi interessi culturali, la passione d’amore per Giovanni e infine la passione che ne ha fatto un autentico martire moderno.
Gino Delledonne
Gino Delledonne
Architetto e docente universitario a contratto. Ha collaborato alle pagine culturali di vari giornali tra i quali "Diario" e "Archivio". Devoto del gruppo garage punk degli Oblivians.
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