Ascesa e caduta di un telefonino. “BlackBerry”, la storia di uno schianto di successo alla Berlinale
Tratto dal libro inchiesta della giornalista Jacquie McNish, arriva in concorso alla Berlinale “BlackBerry” di Matt Johnson, la storia dell’azienda che commercializzò il primo smartphone di successo e poi crollò con l’avvento dell’iPhone. Un buon film, a cui manca però la forza di raccontare il lato oscuro del mondo della finanza …
Nel gergo del ciclismo esiste una parola, passista, che descrive un ruolo fondamentale per gli arrivi in piano. Sono i “vagoni”, per così dire, del treno con cui si arriva alla volata: aumentano il ritmo e poi si sfilano per lasciare la strada al velocista, che dovrà, se tutto va bene, vincere la corsa.
I passisti ci sono ritornati in mente durante la visione di BlackBerry, il film del canadese Matt Johnson in concorso per l’Orso d’oro alla 73a Berlinale. Perché in fondo è stato questo il ruolo del piccolo telefonino con tastiera: tirare la volata a quello che, ancora oggi, è lo smartphone per eccellenza, ossia l’iPhone.
La tecnologia, dai social agli smartphone, sul grande schermo ci è finita più di una volta. Anzi, ormai possiamo dire che sta cercando anche di comprarselo (Apple ha già una sua piattaforma streaming per chi non lo sapesse). Molto spesso, però, il cinema ha teso alla glorificazione. Proprio per questo BlackBerry intriga, perché ci racconta la storia di uno schianto, sebbene di successo.
Johnson è partito dal bestseller di Jacquie McNish, penna del Wall Street Journal, intitolato Losing the Signal, dove veniva ricostruita l’intera vicenda dell’azienda canadese. Niente di nuovo, in fin dei conti. Un gruppo di scalmanati trova la ricetta vincente per un telefonino in grado di connettersi a internet. Sono dei loser geniali, i perfetti paradigmi (forse in questo il film è anche troppo stereotipico) degli hacker che hanno costruito la Silicon Valley.
In mano hanno solo la ricetta però, il loro capo, interpretato da Jay Baruchel, si è ripromesso di costruire un prototipo senza affidarsi alla scarsa qualità dei prodotti cinesi; ma soprattutto balbetta, si perde facilmente e non ha la verve per vendere il prodotto a chi potrebbe pagarglielo profumatamente. Qui entra in scena il suo contrappeso narrativo, uno squalo della finanza (Glenn Howerton) abituato a vendere e disposto a rischiare grosso per scommettere sul prodotto.
Qui il film diventa forse didascalico. Ovviamente il prodotto vende, il colosso della telefonia Verizon lo acquista per proporlo ai clienti, e i due CEO diventano le due facce dell’azienda, da un lato il genio che ha creato il prodotto dall’altra l’affarista che lo ha portato al successo. Un filone che abbiamo visto tante volte nel cinema statunitense degli ultimi anni, applicato a tante storie imprenditoriali, quasi sempre senza una vera e propria critica degli squali della finanza che nella stragrande maggioranza dei casi hanno fatto soldi con idee altrui.
BlackBerry si piazza proprio in mezzo tra questi titoli alla The Founder e quello che è il grande punto di riferimento per chi vuole raccontare i successi finanziari dell’era di internet, vale a dire The Social Network di David Fincher. «Chi riuscirà a mettere un computer dentro il telefono avrà cambiato il mondo», dice il timoroso genietto in una delle sue presentazioni, ma la verità, come insegna il film su Facebook, è un’altra. Conta poco chi riesce a farlo, quel che davvero fa la differenza è riuscire a venderlo.
E il telefonino con la tastiera resta sulla cresta dell’onda, infatti, fino a quando non arriva un venditore più bravo. Quando Steve Jobs presenta il primo iPhone tira in mezzo anche un modello di BlackBerry per rinforzare la novità del suo prodotto: niente tasti, solo schermo. È l’ecatombe. Il ramo ingegneristico non riesce a tirar fuori un prodotto che regga, quello finanziario è sommerso dalle accuse fiscali. La parabola del primo smartphone si chiude così.
Johnson si fa forte di una buona sceneggiatura e con coraggio sceglie un approccio scomodo di regia, che ricorda quasi il “mockumentary” di successo The Office (forse non a caso, era la sitcom più celebre proprio in quegli anni, al punto che Jobs ne mostrò un episodio proprio nel lancio di iPhone). Fa ridere il giusto, specie col personaggio interpretato dal regista stesso, ma tira fuori anche dialoghi ben congegnati.
Si dimentica però di raccontarci cosa faccia oggi BlackBerry. Lasciato per cause di forza maggiore il mondo dei telefonini, l’impresa si è reinventata nel settore della cybersicurezza, dove già ai tempi dello smartphone aveva compiuto passi da gigante. Furono loro a implementare i primi messaggi criptati, inaccessibili da fuori. E questa fu anche la fortuna del CEO di allora, autore di manovre spregiudicate per cui non pagò mai, semplicemente perché gli inquirenti non poterono accedere ai documenti.
Ecco, forse la più grande lacuna del film è proprio la mancanza di un’incisività critica. Se all’inizio del film la grande finanza viene definita un mondo di pirati, ce ne si scorda poi rapidamente. Non appena i soldi iniziano ad arrivare, tutto sfuma, l’unico vero tradimento che si imputa all’azienda è il tradimento dei suoi principi fondativi: la qualità dei materiali e il peso delle relazioni umane. Come a dire che il fallimento è arrivato perché non si è saputo credere abbastanza in quel che si era. Una visione molto a stelle e strisce, che dimentica di raccontare il delirio del mondo finanziario, che proprio in quegli anni si apprestava a gettare il mondo nel baratro della crisi economica.
Tobia Cimini
Perditempo professionista. Spende il novanta percento del suo tempo leggendo, vedendo un film o ascoltando Bruce Springsteen. Nel restante dieci, dorme.
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