Com’ è sbiadito il “Rosso Istanbul” di Ozpetek
In sala dal 2 marzo (per 01) il nuovo film di Ferzan Ozpetek, tratto dal suo romanzo di esordio, “Rosso Istanbul”. Un thriller pretenzioso sulle tracce di un regista scomparso, di uno scrittore alla sua ricerca e di una Istanbul vista di “spalle” che sembra New York, tra fiumi di parole e personaggi in cerca d’autore…
Istanbul di spalle. Anzi di nuca. Quella brizzolata di Orhan – presente ossessivamente -, un celebre scrittore tornato nella sua città dopo vent’anni per fare l’editing del libro di un ancor più famoso regista, Deniz.
Ferzan Ozpetek al suo undicesmo titolo gioca coi numeri, coi nomi, con le parole e soprattutto con la pazienza dello spettatore, firmando uno dei suoi film più pretenziosi di sempre.
A vent’anni da Il bagno turco, felicissimo esordio nel ’97, il regista di origini turche torna sul Bosforo inseguendo la traccia del suo primo romanzo: Rosso Istanbul, qui sceneggiato con Gianni Romoli – anche produttore con Tilde Corsi – e Valia Santella come una sorta di thriller, della serie, “artista in crisi con scomparsa” e conseguente speculazione sul significato dell’atto creativo e della sua messa in scena.
Alla scomparsa di Deniz, infatti, Orhan cerca di entrare sempre più dentro al “libro” per ricercare se stesso, in un costante scambio di identità col regista, e ritrovare i personaggi del romanzo in carne ed ossa. Oltre che – ovviamente – innamorarsi della bella e sposata Neval, capace di risvegliare in lui i palpiti del suo cuore, rimasto troppo a lungo di ghiaccio per un dramma in famiglia.
Ferzan Ozpetek, maldestramente, abbandona ancora una volta le corde della commedia a lui così congeniali, per tuffarsi nel dramma esistenziale. E stavolta, visto il ritorno in patria, sembra pure voler mettere insieme immaginari che richiamano in qualche modo il mondo letterario di un autore Nobel come Orhan Pamuk. Al più celebre scrittore turco, il regista fa corrispondere il nome dello stesso protagonista, e pure lo stesso “gioco” dei personaggi che prendono vita fuori dal libro, come in una sorta di Museo dell’innocenza, lo stesso voluto da Pamuk nel cuore di Istambul, per dare esistenza reale alle sue creature letterarie
Per i personaggi di Rosso Istanbul, invece, la vita è sopraffatta dalle parole, da dialoghi che grondano retorica, toccando sublimi punte di grottesco, quasi fossimo di fronte alle interviste di Marzullo (“chi guarda troppo al passato rischia di non vedere il presente” ne è la summa).
Istanbul, poi, più che l’afffascinante città-cerniera tra Europa ed Asia qual è, da Ozpetek viene raccontata a senso unico, come una distesa di eleganti grattacieli, terrazze d’artista e scatenati party danzanti. Neanche si trattasse di Chicago o New York. Nessuna donna porta il velo, ma piuttosto minigonne e scollature. Interni raffinati e magnifiche case sul Bosforo si rincorrono per tutto il film.
Una città per soli ricchi, insomma, che oltretutto resta sullo sfondo. Come pure il violento regime di Erdogan a cui il regista accenna appena con una manifestazione delle “madri del sabato” in cerca di giustizia da vent’anni per i loro figli scomparsi. Mentre della tragedia dei curdi è la giovane cameriera di famiglia a portarci a conoscenza.
Gli interpreti, tutti di origine turca e celebri in patria, non colpiscono poi per intensità. E forse non aiuta neanche il doppiaggio italiano. Insomma, questo ritorno di Ozpetek ad Istanbul più che rosso sembra proprio essere stato nero.
Gabriella Gallozzi
Giornalista e critica cinematografica. Fondatrice e direttrice di Bookciak Magazine e del premio Bookciak, Azione!. E prima, per 26 anni, a l'Unità.
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