Criaco: “Nelle mie Anime nere c’è l’Italia intera”
Ancora un film partito dalla folgorazione per un libro. Dopo La vita oscena del “cannibale” Aldo Nove portato sul grande schermo da Renato De Maria, il festival di Venezia piomba nei toni duri e cupi delle Anime nere di Francesco Munzi dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco, di nuovo in libreria per Rubettino il prossimo 17 settembre. A parlare dell’amore folle per il testo, saga di una famiglia mafiosa ai piedi dell’Aspromonte, è lo stesso regista:“L’idea del film – racconta Munzi – nasce dall’innamoramento per romanzo di Criaco, per la sua scrittura carica di emozione e per la capacità di guardare all’interno di questo universo, senza mai esaltare la violenza, tenendo sempre presente la demarcazione tra bene e male. Dal libro siamo partiti come dalla Bibbia per reinventarlo”.
Diversi, infatti, i cambiamenti meditati nel corso di quattro lunghi anni di lavoro in cui Munzi ha “tradito” il testo ambientato tra gli anni Settanta e Novanta, aggiornandolo ai giorni nostri e trasformando gli amici in tre fratelli. E’ la famiglia Carbone, originaria di Africo, Reggio Calabria. Paese noto unicamente per le cronache giudiziare dove Munzi ha vissuto a lungo per un gusto tutto filologico della ricostruzione, coinvolgendo nel film gli stessi abitanti, anche come interpreti.
E’ qui che sono nati i protagonisti. Luigi (Marco Leonardi) facile alla violenza ed abile nel business che lo porta spesso all’estero. Rocco (Peppino Mazzotta) la mente “imprenditoriale”, il “colletto bianco” del clan che vive a Milano con la sua famiglia borghese. Luciano (Fabrizio Ferracane), l’unico ad essere rimasto nel paese di origine, che coltiva le tradizioni e che ha un figlio (il giovane Giuseppe Fumo) troppo affascinato dalla violenza, dall’onore e dalla vendetta. Sarà proprio lui, infatti, ad innescare la miccia che farà esplodere nuovamente la faida che ai tempi portò il lutto nella famiglia Carbone. E porterà al finale catartico in cui ogni protagonista dovrà fare i conti con le proprie colpe.
Assestantamenti di massima, che non hanno cambiato il senso della storia conferma Gioacchino Criaco. “Io sono stato lo strumento del regista per entrare in questo mondo, ma lo sguardo è suo”. Anzi, prosegue: “Nel film il sentimento generale coincide con quello del mio romanzo. Come un figlio abbandonato dal padre, così i personaggi vivono questo rapporto con lo Stato patrigno, che permette loro ogni alibi, ogni giustificazione. Se fin da piccolo vedi il poliziotto che va a braccetto col boss cresci con un profondo senso di ineluttabilità”. Eppure delle “ribellioni” ci sono state negli ultimi tempi. “Magari in qualche paese – prosegue Criaco – la gente ha pure mandato via i boss, ma poi ha visto lo Stato rimetterli al loro posto. Perché la ‘ndrangheta è utile, serve a contenere la ribellione sociale”. Così vediamo i protagonisti muoversi in questa sorta di percorso obbligato dalle leggi della ‘ndrangheta. “Proviamo anche compassione – aggiunge lo scrittore – per questa gente che nella vita non ha fatto nulla di buono e che non ha alcuna presa di coscienza. Se non nel finale, quando finalmente arriva la scelta di uno dei fratelli di pagare per quello che ha fatto, per le proprie colpe che alla fine sono sempre personali e di fronte alle quali non valgono più i soliti alibi: lo stato, la società, le condizioni storiche. Per questo il mio romanzo non riguarda solo la Calabria ma l’Italia intera”
Gabriella Gallozzi
Giornalista e critica cinematografica. Fondatrice e direttrice di Bookciak Magazine e del premio Bookciak, Azione!. E prima, per 26 anni, a l'Unità.
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