Ferragosto d’autore. “Paterson”, la poesia scritta a mano da Jim Jarmusch (su RaiPlay)
Proposta di Ferragosto col cinema d’autore. È “Paterson” di Jim Jarmusch disponibile su RaiPlay. C’è un autista di autobus che scrive versi. Tra Ginsberg, Carver e Ron Padgett, il regista americano firma l’ennesimo certificato di appartenenza del suo cinema: indipendente e contro il contemporaneo, analogico come una poesia scritta a mano. Presentato a Cannes 2016 e da rivedere …
Abbiamo lasciato il cinema di Jim Jarmusch a Detroit e Tangeri, ai vampiri analogici di Solo gli amanti sopravvivono (Only lovers left alive): creature che ascoltano i vinili, contro la modernità, mostri che resistono al contemporaneo. E che vengono messi a confronto col giovane vampiro, Mia Wasikowska, che frequenta i giorni nostri e si apre al mondo d’oggi.
Ora ritroviamo il suo cinema a Paterson, New Jersey, ed è esattamente lo stesso film: qui non ci sono vampiri, ma un autista di bus che rifiuta il cellulare e scrive poesie a mano, sul quaderno degli appunti. Non ha i canini, certo, ma allo stesso modo respinge la dittatura dello spirito del tempo.
Paterson (Adam Driver) è un conducente di autobus nella città di Paterson, con nomi di persona e luogo che coincidono: la sua routine è fatta di lavoro, vita condivisa con la sua donna, Laura (Golshifteh Faranahi) e soprattutto scrittura di poesie.
Ogni giorno egli osserva l’umanità attraverso i vetri opachi del suo bus: nella piccola e periferica Paterson cerca scampoli di poesia, li trova in un rapper nero in lavanderia e in una bambina che recita un componimento. I versi del protagonista descrivono piccole cose, una situazione o un oggetto (come una scatola di fiammiferi), per poi rapportarli alla situazione sentimentale soggettiva, come l’amore per una donna, e quindi tornare di nuovo all’oggetto.
Versi in realtà tratti dalle raccolte del poeta Ron Padgett, membro della Scuola di New York, amico di Jack Kerouack e Allen Ginsberg (entrambi scrissero sulla sua rivista letteraria The White Dove Review), che si rifanno alla tradizione della letteratura minimalista americana. Il riferimento implicito è Raymond Carver, le sue poesie quotidiane, nome chiave a cui Jarmusch pare guardare anche nelle storie minime che si intrecciano tra loro, come la pantomima degli amanti neri nel pub che sembra uscita da Cattedrale.
Quanto valgono le poesie di Paterson? Per lui è irrilevante, gli basta continuare a scriverle a mano. La sua donna, invece, intende l’arte nel modo più esibito ed esteriore, nel senso commerciale: Laura vuole che le poesie siano rese pubbliche, estratte dal solo cartaceo, fotocopiate e moltiplicate, immesse nel mercato. Non capisce che quelle poesie esistono proprio perché stanno in quel taccuino. Laura, con i suoi smartphone e ipad, nel consegnarsi sfacciatamente al contemporaneo è il corrispettivo di Mia Wasikowska in Solo gli amanti sopravvivono: il suo amore è sincero ma uscendo da sé, rincorrendo la fama e il pubblico, si perde la propria intima sostanza.
Paterson è un film che si nutre di cinema e letteratura, come il suo autore. Il protagonista rilegge continuamente William Carlos Williams, il poeta di Paterson per eccellenza (e Laura storpia il suo nome: “Carlo Williams Carlos”, a sottolineare la residualità sua e di chi lo ama): ma adora anche Emily Dickinson, nella sua libreria tiene Infinite Jest di David Foster Wallace, inquadrato all’inizio, e la sceneggiatura di Kill your darlings di John Krokidas, film che inscenava la Beat Generation (sempre Ginsberg).
La foto di Allen Ginsberg è esposta sul bancone del pub (e tre). Paterson e Laura vanno al cinema a vedere L’isola delle anime perdute di Erle C. Kenton (1932), tratto da H.G. Wells, con Kathleen Burke nella parte della protagonista femminile che – fa notare Paterson – somiglia molto a Laura. Questi alcuni esempi, altri ce ne sono.
Il punto della questione, però, è che quelle di Jarmusch non sono semplici citazioni, bensì la chiara rivendicazione di appartenenza a un universo: l’arte indipendente, i film in bianco e nero, il racconto minimalista in opposizione al cinema industriale. Torniamo ai vampiri che ascoltano vinili. In tal senso sono citazioni politiche, perché firmano un certificato di esistenza attraverso il linguaggio.
Ma Paterson è anche un film avvolto nell’ironia jarmusciana, che va di pari passo ad una gestione della messinscena magistrale che lascia disarmati. Oggi Jarmusch è, semplicemente, il più grande regista minimalista americano: lo dimostra la scena reiterata del risveglio di Paterson e Laura insieme nel letto che, di volta in volta, si ripete quasi uguale ma presenta impercettibili e decisive variazioni (la donna è nuda, hanno fatto l’amore; i due sono in armonia; Paterson è in ritardo, e così via). “Ho sognato che avevamo due gemelli”, dice la donna a Paterson (Pater e son, nome che unisce paternità e filiazione), e da quel momento l’uomo inizia a vedere gemelli ovunque, reali o immaginati, in una proiezione concreta dell’immagine subcosciente. Anche lui, in fondo, è “gemello” di Carlos Williams, autore della raccolta Paterson che porta il suo nome.
Ma la poesia può vivere nella quotidianità di un autista? A questa domanda sotterranea risponde il percorso di Paterson: mentre le sue opere si formano in sovrimpressione egli segue la routine, giornate simili con minime differenze, lavora, torna a casa, sta con la sua donna, porta a spasso il cane Marvin. Ed è proprio l’animale che simboleggia il caso, l’imprevisto, la zampata contro la casella postale, la rottura dell’ordine che spaia le carte: quando la routine si inceppa, Paterson e Laura vanno fuori per cena (“Dovremmo farlo tutti i weekend”), ecco allora che Marvin divora le poesie.
Una beffa che sembra seppellire definitivamente la plausibilità artistica di Paterson, ed è qui che Jarmusch muove il colpo d’ala: l’apparizione del giapponese, figura jarmusciana dello “strano” che si incontra sulla strada, interviene proprio a ripristinare la poesia. Egli è la poesia: donando la pagina bianca a Paterson decreta che scrivere versi è ancora possibile. Nell’ultima curva dell’ultimo incontro, dunque, la scrittura ricomincia.
Attenzione: nel film la poesia recitata dalla ragazza, una bella poesia adolescenziale sulla pioggia (Due parole: Water Falls) è l’unica non scritta da Ron Padgett ma composta direttamente da Jim Jarmusch. Qui, con l’ironia che sempre lo percorre, il cineasta si concretizza nella forma di una bambina e consegna così una dichiarazione della propria essenza: anche lui è un piccolo poeta. E anche i poeti sopravvivono.
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