“Francofonia”, ode all’arte che ci salverà

Nelle sale dal 17 dicembre il film del grande Aleksandr Sokurov che, all’indomani della strage di Parigi, si arricchisce di ulteriori significati. Un viaggio all’interno del Louvre occupato dai nazisti per riflettere sulle sorti della nostra civiltà e la sua sopravvivenza…

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Aleksandr Sokurov entra nel Louvre. Dopo il capitale Arca Russa (2001), dove il regista esplorava l’Hermitage di San Pietroburgo in un funambolico piano sequenza, è di nuovo la volta di un museo: lo stesso di tanti documentari, da La ville Louvre di Nicholas Philibert (1990) ad Une visite au Louvre (2004) di Straub e Huillet.

Qui si va indietro al 1940, negli anni dell’occupazione nazista della Francia. Due figure a confronto: il direttore del Louvre, Jacques Jaujard, e il conte Franziskus Wolff-Metternich, ufficiale di Hitler e responsabile delle opere d’arte. Gli uomini si trovano l’uno davanti all’altro in un dialogo complesso: salvare le opere o raderle al suolo, verificare uno spazio possibile per l’arte nel teatro di guerra.

Ma non parla di questo Francofonia, l’ultimo film di Sokurov dal 17 dicembre nelle sale italiane per Academy Two, dopo la presentazione in Concorso al Festival di Venezia. Girato su commissione per lo stesso museo, il film è un percorso che respinge ogni “argomento” definito, affidandosi piuttosto al flusso di riprese e inquadrature composte da uno dei maggiori cineasti viventi: ecco allora che il film si apre sullo stesso regista, mostrato di spalle nel suo studio, che riflette sul senso del tempo e della Storia. Alternando immagini di repertorio a ricostruzioni di finzione, il film muove in una Parigi occupata, mostrando Hitler che scruta la città deserta, quindi ricostruisce gradualmente la condizione del museo.

Sokurov inscena una possibile fine della civiltà, piegata dal conflitto, salvo poi tracciare un’ipotesi umanista col ritratto dei due personaggi, che parlano lingue diverse ma si capiscono, e si accordano nel nome della conservazione artistica: l’arte ci prescinde e resta in piedi.

È un film fatto di deviazioni, scarti improvvisi, deviazioni immaginifiche. Come le lenti deformanti usate in Faust (2011), anche qui il regista siberiano ha l’ambizione felice di mettere in scena tutte le arti, dalla scultura alla fotografia, mescolandole tra loro: crea vertigini e azzarda sinestesie, accostando registri e modalità espressive diverse tra loro, anche dietro alla cinepresa che passa dal bianco e nero alla “finta” ricostruzione storica, dal fuori fuoco allo sgranato. Questo limbo “post-film”, o meglio per un film “nuovo” che trova la peculiarità attraverso l’unione ardita dell’esistente, crea una dimensione sospesa che permette la sfilata fantasmatica di figure dai nazisti a Napoleone.

Francofonia sconta anche la natura di commissione, con un inizio incerto e una sintesi non sempre facile tra le varie spinte: è un’opera minore, rispetto alla precedente tratta da Goethe che fu Leone d’oro, ma basta una sequenza per superare i registi di oggi e mostrare dove il cinema può spingersi quando è libero da steccati.

Per esempio – ormai celebre – il dialogo impossibile tra Napoleone e la Marianne che si svolge davanti alla Gioconda, terzo interlocutore muto come gli altri. «In un periodo di conflitto i nostri due protagonisti sono riusciti a trovare un’intesa», dice Sokurov. Rivisto ora, un’epoca dopo, con l’attacco di Parigi ancora negli occhi, si ha la certezza che l’arte e l’uomo sopravviveranno. Come si conserva la pittura, così si conserverà la pellicola se saprà rinnovarsi. Ma non è un film in cui trovarsi, questo, a cui chiedere risposte: perdersi in esso è l’unica posizione plausibile, per trovare l’intesa di cui parla il regista, quella con l’immagine.