Viaggio nel Queens dei più deboli con Frederick Wiseman. Su RaiPlay

Disponibile su RaiPlay “In Jackson Heights”, il viaggio nel Queens, il quartiere multietnico di New York presentato dal grande documentarista americano, Frederick Wiseman, a Venezia 2015.  Il “regista entomologo”, ancora una volta, prende posizione a favore dei più deboli. Inquadrando l’impegno dei comitati, i piccoli negozianti che resistono all’arrivo delle multinazionali, gli spettacoli dei musicisti di strada, la comunità colombiana, i migranti che imparano l’inglese per il permesso di soggiorno, gli anziani che vivono la terza età, la grande comunità GLBT che inscena un oceanico gay pride e tanto altro …

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Frederick Wiseman a 85 anni entra nel quartiere di Jackson Heights, zona multietnica nel Queens a New York, nel film presentato Fuori concorso al Festival di Venezia 72. Il più grande documentarista vivente, con lo storico operatore John Davey, per 190 minuti osserva questa realtà: tre ore che – come sempre – sono frutto di molte ore di girato, lunghi appostamenti e poi una selezione del materiale attraverso il montaggio che dà senso alla pellicola.

In Jackson Heights, dunque, inquadra una serie di persone, situazioni, circostanze che addensandosi tra loro formano il quartiere: le diverse religioni e l’impegno dei comitati, i lavoratori della zona, i piccoli negozianti che resistono all’arrivo delle multinazionali, gli spettacoli dei musicisti di strada, la comunità colombiana, i migranti che imparano l’inglese per il permesso di soggiorno, gli anziani che vivono la terza età, la grande comunità GLBT che inscena un oceanico gay pride. E tanto altro.

Dopo i documentari degli ultimi anni, incentrati sul movimento del corpo (La Danse, Boxing Gym) e sulla costruzione del pensiero (il capolavoro At Berkeley), Wiseman torna ai tempi di Belfast, Maine (1999): indaga una comunità attraverso i volti e le parole dei suoi abitanti. La tecnica del regista americano è nota: ritagliandosi un ruolo di narratore assente (Wiseman non entra mai in campo), dà spazio assoluto alle persone che inquadra e ai loro racconti, sia parlati sia silenziosi, come dimostra la ripresa delle fasi di macellazione del pollame.

Le narrazioni sono poi accostate fra loro attraverso inquadrature di raccordo, come le targhe stradali del quartiere o il passaggio della metro. Questa strategia gradualmente ricostruisce un mondo: un micro/macrocosmo che parte dalla realtà, la “smonta” dalla sua collocazione primaria e tenta di ricostruirla su un’altra tela, il mezzo cinematografico. Così il quartiere di Jackson Heights diventa tascabile e trasportabile.
È un regista entomologo Frederick Wiseman, che afferra una situazione come una sfera e la rigira tra le mani, osservandola dalle molte angolazioni possibili. E il caleidoscopio di visioni che ne deriva è il senso ultimo del film.

Ma attenzione: l’approdo scientifico del cineasta non significa affatto che sia “imparziale”. In Jackson Heights finge uno sguardo equidistante ma è sempre dalla parte dei poveri, gli anziani, gli ultimi. Allora una signora di 98 anni in una lunga ripresa spiega la sua situazione: i suoi affetti sono scomparsi, si sente sola, non parla mai con nessuno. “Sei ricca, comprati degli amici”, le risponde una signora più giovane. Dare spazio a una centenaria è la presa di posizione di Wiseman: scegliere cosa mostrare diventa scelta politica a favore dei deboli.

Non a caso l’inquadratura finale si allarga fino a mostrare lo skyline di New York: perché la preposizione “in” che precede Jackson Heights è anche in America e nel mondo. Lo stare dentro alle cose si apre all’universale, ascoltare gli umili non conosce confini. Nella deludente edizione della Mostra 2015, la proiezione di In Jackson Heights ha illuminato un festival evanescente.