Hitler è tornato e fa Salvini in tv
In sala dal 26 aprile, per soli tre giorni, il film “caso dell’anno” in Germania. Dal bestseller di Timur Vermes la storia del Fuhrer redivivo ai giorni nostri che torna a far proseliti in veste di comico televisivo. Una commedia provocatoria ma non troppo sulla falsariga del dissacrante “Borat”…
Il libro, neanche a dirlo, è un successo da 2 milioni di copie vendute solo in Germania e traduzioni in mezzo mondo (in Italia per Bompiani). E il suo autore, Timur Vermes, giornalista tedesco, classe ’67, dall’aria del “crucco” simpaticone (anche se di padre ungherese) è diventato improvvisamente “lo scrittore” dell’anno, occupando di forza social, tv e giornali. Esattamente come “Lui” il protagonista del suo fortunato romanzo, ossia Adolf Hitler.
E sì perché la “trovata” è semplice e geniale: far tornare in vita il Fuhrer nella Germania d’oggi e vedere l’effetto che fa, complice lo strapotere mediatico che lo elegge a comico di punta. Fantascienza, ma non tanto, soprattutto in tempi di crisi economica, di razzismo galoppante e di integralismi religiosi come i nostri, così drammaticamente simili a quelli che, agli inizi del secolo scorso, portarono all’ascesa del nazismo. E da noi, non dimentichiamolo, del fascismo.
Un piatto troppo ricco, insomma, perché il cinema non ne approfittasse. E puntualmente è accaduto: Lui è tornato, dall’omonimo romanzo di Vermes è diventato una commedia per la regia di David Wnendt, giovane autore tedesco, anche lui improvvisamente baciato dal successo ai botteghini tedeschi lo scorso anno (500 mila ingressi soltanto nella prima settimana).
Ora Lui è tornato arriva anche in Italia, ma solo per tre giorni (il 26, 27 e 28 aprile) distribuito dalla Nexo Digital (trova la sala), mentre sulla piattaforma Netflix è presente tra i “nuovi arrivi”.
Come reagirà il pubblico italiano? Staremo a vedere. Poiché di Lui, in versione nostrana e nostalgica (leggi Mussolini), i nostri media già abbondano. Il film, infatti, è una commedia alla Borat, ma senza la forza dissacrante di Sacha Baron Cohen. Anche se certamente portare in giro un nuovo Adolf Hitler (col volto somigliantissimo di Oliver Masucci) è già di per sè una bella provocazione.
Con lui, infatti, il regista ha percorso la Germania in lungo e in largo registrando le reazioni della gente comune di fronte all'”apparizione” del Fuhrer redivivo. Risultato: con sparate contro gli immigrati, gli ebrei ma anche la tv spazzatura e una “innovativa” vena ambientalista l’Hitler ritrovato ha raccolto al suo passaggio incredibili consensi di pubblico. Gente in fila per farsi un selfie con lui, braccia alzate col saluto romano (come dei turisti italiani in visita a Berlino), commenti contro gli immigrati e pochi, pochissimi, passanti indignati. A riprova, insomma, di come i rigurgiti neonazisti siano sempre in agguato. Ma questo, purtroppo, lo raccontano anche le cronache.
L'”esperimento sociale” a colpi di candid camera, però, è solo l’effetto collaterale. Il cuore della storia, infatti, è il risveglio del Fuhrer nel bel mezzo di Berlino, dove un giornalista precario di una emittente televisiva, appena licenziato, tenta di farsi riassumere grazie allo “scoop del secolo”. In realtà nessuno crede che quell’uomo con la divisa del Terzo Reich, i baffetti e il ciuffo sulla fronte, sia davvero Adolf Hitler. Ma piuttosto un comico, ottimo per fare ascolti nello show di prima serata.
E così accade. Il povero giornalista precario, torna a portare caffè in redazione, mentre la nuova direttrice (“Mi piacciono le donne forti, come Leni Riefenstahl”, commenta soddisfatto il Fuhrer) approfitta dell’occasione per far impennare l’Auditel. Tra colpi bassi in redazione (il potere si sa, dà alla testa a chiunque, non solo ad Hitler), ascolti da capogiro, qualche polemica e i social impazziti, si arriverà persino a girare un film sul caso dell’anno. Solo a quel punto il giornalista “sfigato” capirà davvero qual è la verità. Ma sarà troppo tardi. Perché come suggerisce il finale, a sorpresa, “l’Hitler che è in noi” è immortale.
“La mia generazione rischia di dimenticare il passato – dice David Wnendt- . Bombardati da un mare di informazioni e nozioni si fatica a sviluppare senso critico e a leggere il presente con coscienza”. Una preoccupazione condivisibile, quella del regista, ma che forse gli ha impedito di forzare davvero sulle corde della provocazione e scardinare la gabbia del politicamente corretto. Lasciando il film riuscito a metà.
Gabriella Gallozzi
Giornalista e critica cinematografica. Fondatrice e direttrice di Bookciak Magazine e del premio Bookciak, Azione!. E prima, per 26 anni, a l'Unità.
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