Kaurismäki e il rifugiato, la danza dell’assurdo del nostro presente
In sala dal 6 aprile (per Cinema) “L’altro volto della speranza” di Aki Kaurismäki, vincitore del premio alla regia alla scorsa Berlinale. Un rifugiato siriano incontra il proprietario di un ristorante ad Helsinki: il regista finlandese trascina la realtà sul terreno del suo cinema, quello della commedia paradossale. Assurdo per assurdo: perché rifiutare una richiesta d’asilo non è meno folle dei suoi personaggi. Da non perdere assolutamente…
Aki Kaurismäki sfida la realtà attraverso la finzione. Il cineasta prende la nostra attualità e la trascina sul terreno dell’assurdo: ed è proprio lì, nella zona paradossale in cui si muovono i suoi personaggi, che allestisce il campo di battaglia per affrontare il dramma dei rifugiati.
Dopo Miracolo a Le Havre, dopo il lustrascarpe Marcel Marx che incontra il giovane africano e lo protegge, il suo cinema sceglie ancora di stare dentro al nostro tempo. E il discorso non cambia, slitta solo verso un altro reietto del contemporaneo, il rifugiato siriano Khaled (Sherwan Haji).
L’ occhio si sposta ai nuovi senza patria, in fuga dai conflitti, corpi scuri che simbolicamente si mimetizzano col carbone, e si legano naturalmente ai poveri, ultimi, folli da sempre inscenati. L’altro protagonista è Wikström (un grandissimo Sakari Kuosmanen, feticcio del regista), commesso viaggiatore che lascia la moglie e si compra un ristorante alla periferia della città.
Le storie ovviamente si incrociano: il siriano e il finlandese, lo straniero e l’autoctono, il giovane che scappa e l’uomo che accoglie. Prima il siriano lo aggredisce (“Do you wanna fight?”, “But I’m bigger”), abituato alla violenza sociale nei suoi confronti, poi si avvicinano, l’ uno protegge l’ altro, costruiscono una comunità.
In altre parole: se il nostro contemporaneo è questo, sembra dire il film, se un uomo che fugge dalla guerra viene rifiutato dal paese ospitante, allora – assurdo per assurdo – è possibile aprire un ristorante che serve sushi di sardine.
Il regista affronta il fatto di cronaca attraverso il comico, attraverso un’ operazione concettuale che li mette sullo stesso piano: è qui che l’ inverosimile locale, e la sua grottesca fauna, non è più incredibile di quanto lo sia rifiutare un diritto d’ asilo.
Il reale e il racconto si dispiegano sullo stesso registro: sono entrambi paradossi. Così il ristorante diviene uno spazio sospeso, come uso dell’ autore, dove ciò che conta è beffare l’ autorità: lo dimostra la danza delle pedine durante la visita di controllo che, come in un film di Tati, nascondono, alterano, si scambiano ruolo in un’ installazione in movimento, allo scopo di sabotare l’ ordine imposto.
“Sorridi sempre: quelli tristi vengono espulsi prima”, dice un rifugiato all’ altro, in una teorica dichiarazione di intenti: sia la polizia che i neonazisti, nell’ universo Kaurismäki, soffrono della stessa idiozia, inchiodati all’ analogico (gli agenti che battono sulla macchina da scrivere) oppure mostruosi, lombrosianamente “brutti” come gli aggressori.
D’ altra parte la beffa è in agguato, e addirittura scatta automatica, la complicità con Khaled viene data per scontata, mai enunciata, come per l’ infermiera che improvvisamente favorisce la fuga. I due poli opposti si riflettono tra loro, sono la stessa cosa: la rincorsa tra il ridicolo della polizia e il grottesco di chi deve sfuggirle prosegue vorticosa e senza tregua. Basta l’ atto del siriano, rifugiato che fa l’ elemosina agli altri poveri, a sintetizzare uno sguardo politico: ma la vera politica qui abita nella messincena.
Parla con chiarezza Kaurismäki: “Il cinema non ha il potere di cambiare nulla – ha detto in conferenza stampa -, ma forse le quattro/cinque persone che vedranno il mio film penseranno: domani anche io posso essere un rifugiato”.
Ma The Other Side of Hope non è un film sociale: la sua bellezza risiede nell’ alto magistero stilistico. Nel gesto di un regista che sfida l’ oggi dandogli la forma che gli compete, quello della commedia esilarante. E che, con l’ ennesimo finale chapliniano, chiude su un volto illuminato dal sole: un uomo ferito, certo, ma consolato da un cane e rischiarato dalla luce. Perché i film, al contrario della vita, conoscono finali felici.
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