Ken Loach: “Il mio Daniel contro il workfare”
Il grande regista inglese reduce dalla Palma d’oro per il magnifico “Io Daniel Blake” – in sala dal 21 ottobre – parla della precarietà del lavoro al tempo della globalizzazione. E mette in guardia contro i servizi all’impiego, che ormai non rispondono più alle esigenze del welfare, ma alla logica fredda e inumana del “workfare”, nuova frontiera dell’umiliazione e della perdita di dignità del lavoro…
Molti e importanti sono i temi affrontati da Ken Loach nel film vincitore della Palma d’oro 2016 a Cannes, Io Daniel Blake. Il primo, che comprende tutti gli altri, è la precarietà del lavoro al tempo della globalizzazione, a cui si aggiunge il dramma della perdita dell’impiego e della dignità umana a un’età – 59 anni, quelli del protagonista impersonato da Dave Johns – in cui è troppo presto per avere una pensione e troppo tardi per competere sul mercato del lavoro.
Dopo avere avuto un infarto che lo ha reso inabile al lavoro di carpentiere, Daniel Blake passa le sue giornate nei centri di collocamento e in quelli preposti al riconoscimento dell’indennità per malattia, non riuscendo a ottenere né l’uno né l’altro.
Ken Loach ci fa toccare con mano l’impersonalità, la stupidità, l’insensibilità e la rigidità di questi uffici, nonché l’esasperazione che nasce dalle telefonate ai call center dopo un’ora e 48 minuti di attesa, “più della durata di una partita di calcio” sbotta il protagonista quando finalmente riesce a parlare con un incolpevole operatore.
“Le sequenze nei centri di collocamento – spiega Ken Loach in un incontro con la stampa all’Hotel Bernini di Roma, il 13 settembre, in occasione dell’anteprima del film che uscirà sugli schermi italiani il prossimo 21 ottobre – sono state girate con due soli attori professionisti affiancati da ex dipendenti che hanno vissuto sulla loro pelle esperienze simili a quelle raccontate nel film, e che se sono andati via disgustati”.
Il secondo tema, dunque, è quello dei servizi all’impiego, che ormai – e non solo in Gran Bretagna – non rispondono più alle esigenze del welfare, ma alla logica fredda e inumana del “workfare”, che prevede l’obbligo di impegnarsi nella ricerca di impiego anche per ottenere i sussidi, con tutto ciò che ne consegue in termini di umiliazioni, di svilimento della professionalità e persino di perdita della dignità del lavoro.
A questo tema si lega quello della burocrazia con i suoi risvolti inquietanti, i premi assegnati agli operatori che sanzionano chi non rispetta al 100 per cento le condizioni del workfare, i colloqui di lavoro e la compilazione dei questionari affidati a società esterne, i cui consulenti risultano magari a libro paga di multinazionali straniere.
“Gli Stati europei – è ancora Ken Loach a spiegare – antepongono agli interessi delle persone quelli del capitale, che ha tutto da guadagnare nel rendere i lavoratori più vulnerabili e ricattabili: se perdi il lavoro è colpa tua, non hai saputo compilare bene il tuo curriculum vitae, sei arrivato al tuo posto di lavoro in ritardo di dieci minuti. Il tutto mentre il lavoro diventa sempre più raro e i pochi posti disponibili sono talmente precari che non permettono alle persone di avere un salario adeguato e una vita dignitosa”. “Il precariato – conclude il regista – è sempre più un valore per le grandi imprese, un rubinetto che si può aprire e chiudere secondo i loro bisogni, mentre per i lavoratori è un disastro”.
E poi ancora: la condizione di ulteriore marginalizzazione per i disabili a qualunque titolo, anche coloro che lo diventano nel luogo del lavoro o a causa del lavoro; l’analfabetismo digitale, che esclude da un mondo sempre più computerizzato una parte della vecchia classe operaia, i cui valori si disperdono e si smarriscono nella realtà virtuale; la rivendicazione dei diritti di cittadinanza; e infine – unica nota positiva in ciò che resta della realtà concreta, messa così spietatamente a nudo in questo film – la solidarietà tra i lavoratori dura a morire, e la solidarietà tra generazioni che ancora resiste nonostante tutto.
L’altra protagonista del film, Katie, giovane madre single di due bambini (magnificamente interpretata da Hayley Squires) che cerca di tirare su con tutti i mezzi, anche i più disperati, troverà conforto e sostegno nel rapporto con Daniel Blake, in una Newcastle piovosa e livida che conserva scampoli di umanità dietro gli angoli delle strade, nelle abitazioni grigie di periferia, nelle fabbriche colpite dalla crisi, persino dietro gli sportelli dei centri per l’impiego e nei retrobottega dei supermercati.
Insomma, un gran bel film Io, Daniel Blake, ma soprattutto un film importante. “Sarà difficile liquidare la realtà mostrata nel film da parte dell’establishment”, sostiene Ken Loach, il quale si ostina a credere in un futuro migliore (nonostante la Brexit), nella forza del cinema di denuncia (che un premio come la Palma d’oro sosterrà nella diffusione) e nella “gioia”, così dice lui, “di fare film che raccontano la nostra vita”.
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