La libertà è partecipazione. La straordinaria esperienza dell’Isolotto di Firenze in un doc

Arriva in tour nei cinema (qui il link alla programmazione) “Le chiavi di una storia” di Federico Micheli dedicato all’entusiasmante esperienza comunitaria e solidale dell’ Isolotto di Firenze, quartiere popolare nato nel ’54 e diventato modello di partecipazione civica, capace di unire politica e religione, tra rom, operai in sciopero, baraccati romani e quel  parroco Enzo Mazzi, che aveva studiato in seminario con don Milani …

Le chiavi di una storia è il titolo del documentario di Federico Micali sulla Comunità di base dell’Isolotto, a Firenze. E le chiavi tornano di continuo in questa vicenda. Proviamo a trovarle.

Le prime chiavi sono quelle delle nuove case popolari consegnate dal sindaco Giorgio La Pira a mille famiglie – sfrattati, disoccupati, profughi istriani, immigrati dal meridione – nel nuovissimo quartiere progettato dall’Ina-casa. Negli anni ’60 ecco la Chiesa, la scuola, le attività commerciali e sportive.

È qui che nasce la Comunità di base, avviata dal parroco Enzo Mazzi, che ha studiato in seminario con don Milani, e che condivide le idee di una larga parte di cristiani impegnati, “il tentativo di rinnovamento radicale della chiesa e del mondo”. Un esperimento straordinario che diventa pratica di vita.

A raccontarlo, una ventina di testimoni, partecipi ognuno a suo modo ma insieme, di una grande vicenda. Non importa il nome di chi parla, il loro è un racconto corale, inframezzato da filmati d’epoca e no, da foto, da documenti. Così Micali segue passo passo la nascita e le vicende di questo pezzo di Firenze, nel film prodotto dalla Comunità di base dell’Isolotto.

La prima innovazione fu la gratuità di tutti i servizi parrocchiali. Poi l’apertura al sociale e al mondo. All’Isolotto erano benvenuti gli operai della Galileo in sciopero, i sacerdoti spagnoli perseguitati da Franco, quelli vietnamiti che combattevano con i vietcong, i baraccati romani, i metalmeccanici di Orgosolo, i pastori di Orgosolo…

Anche dentro la chiesa, la grande assemblea domenicale ospitava sì la messa, ma insieme la discussione e la contestualizzazione dei problemi, la costruzione di alternative, don Mazzi spesso un passo indietro, per lasciare protagonismo ai più giovani. Un fare insieme che ha costruito comunità.

È un lavoro comune Il Catechismo dell’Isolotto poi pubblicato dall’Espresso, un invito alla gioia della vita, alla bellezza dell’incontro. Così l’esperienza della Comunità comincia ad essere conosiuta in tutt’Italia e fuori dal confini nazionali. Quando ci fu l’alluvione di Firenze, nel ’66, l’Isolotto fu naturalmente un centro di accoglienza per gli alluvionati, un centro di smistamento degli aiuti.

Episodio chiave dell’Isolotto e della sua comunità è la vicenda della cattedrale di Parma: un gruppo di giovani l’occupò in polemica contro la costruzione di una nuova chiesa: la Curia utilizza i finanziamenti di una banca che investe in armi e guerra, l’accusa.

La comunità dell’Isolotto si schiera con quella lotta, ma è la Curia fiorentina a indignarsi. Il cardinal Florit chiede una pubblica ritrattazione a don Mazzi che, come per tutte le questioni comuni, si rimette all’assemblea. Il 31 ottobre 1968 l’assemblea respinge la richiesta del vescovo: “La chiesa degli ultimi non si mette a tacere”. Don Enzo si ritira dalla parrocchia, che resta nelle mani dei laici della comunità: saranno loro a incontrare il Vescovo. Inusualmente il testo stenografico dell’incontro viene reso pubblico, il vescovo schiuma rabbia e toglie a Enzo Mazzi l’affidamento della parrocchia.

“Vescovo, tu condanni tuoi figli” è uno dei cartelli portati per tutta Firenze da una grande manifestazione. Non serve a molto una lettera conciliante di Paolo VI.

Ecco le chiavi. Il vescovo chiede la riconsegna della parrocchia, il 5 gennaio verrà un delegato a ritirare le chiavi e a celebrare messa. Quel giorno la chiesa è così piena che con ci entra uno spillo, e piena è anche la piazza antistante. Le chiavi vennero consegnate, ma a quel punto i parrocchiani tirarono fuori le loro chiavi e cominciarono a scuoterle: la chiesa è la nostra casa, ora prendete anche le chiavi di casa nostra.

Impossibile celebrar messa in quelle condizioni, lo capì anche il povero delegato vescovile. Ma ai sacerdoti della parrocchia e a quattro laici arrivò un avviso di garanzia per interruzione di rito religioso. E un folto numero di persone presta una autodenuncia in correo: siamo responsabili anche noi.

Mentre l’assemblea della comunità e le celebrazioni si continuarono a tenere davanti al portone sbarrato della chiesa, si raccoglie solidarietà, si prepara il processo che nel ’71 assolse tutti per non aver commesso il fatto, si aprono nuove attività. Oltre alla casa famiglia e agli incontri con gli invalidi, nelle baracche di legno verdi, sede provvisoria della scuola prima dell’edificazione, si organizza la suola popolare che ha consentito di prendere la licenza media a molti adulti, la scuola di cucito per donne rom, il “notiziario” al ciclostile, gli scout, i giovani, il centro di ascolto. Insomma, un polo educativo.

Pian piano, tutto si sposta alle baracche verdi. La morte di Enzo Mazzi, ridotto allo stato laicale, non interromperà l’esperienza. Anche perché, saggiamente, ha abituato pian piano la comunità alla sua assenza. Il tempo dell’Esodo, lo chiamava. E ricordava i fiumi carsici che ogni tanto scompaiono nell’ombra per riapparire più in là. Bella metafora, ricorda una delle prime partecipanti alla Comunità. “Abbiamo ben seminato – dice – questo ci fa superare la paura della fine”.