La maledizione della Torre Nera, diventare film e deludere
Nelle sale dal 10 agosto (per Warner Bros) “La torre nera” dall’imponente saga fantasy di Stephen King, una specie di hobby infantile che il celebre scrittore ha coltivato a singhiozzo, ma con perseveranza, fin dall’età di 22 anni, nel sogno di scrivere “il più lungo romanzo popolare della storia”. Ora è un film (la regia è di Nikolaj Arcel con Idris Elba) che sembra un frullato di déjà vu…
Ho provato a contare i film tratti da romanzi di Stephen King. Mi sono persa dopo quota 60, sopraffatta da decine di corti, serie tv dedicate ed episodi di serie spurie, remake e saccheggi di varia natura. Praticamente non scrive una riga senza avere già in tasca i diritti del trattamento.
Da rockstar dell’editoria ha ispirato capolavori infedeli come Shining, buoni film come Misery, Carrie, Il miglio verde, L’allievo, ma anche un mare di fuffa. Tutta però preoccupata di rispettare, più o meno, il suo marchio di fabbrica.
La temeraria impresa di trasporre la sua singolare incursione nel genere fantasy, coccolata, rimaneggiata, lasciata e ripresa come l’amante del cuore, un suo miraggio privato da coltivare a prescindere, bolliva da anni nel pentolone di Hollywood. Non è ben chiaro se ci hanno pensato troppo o troppo poco. L’Autore finora non si è pronunciato, chissà se avrà voglia di farlo quando sarà decretato lo scacco di questa “mission impossibile”. Io, già in partenza, non mi facevo illusioni.
Se il titolo, La torre nera, non fosse, incontrovertibilmente, quello della monumentale saga sfornata da Stephen King inseguendo il sogno di scrivere “il più lungo romanzo popolare della storia”, mai e poi mai gli attribuiresti la paternità del film appena uscito negli Usa e dal 10 agosto nelle sale nostrane (per Warner Bros).
Spasmodicamente atteso dai “kinghiani”devoti, il progetto è ciclopico: una trilogia per lo schermo “doppiata”da una parallela serie tv. E il brain trust è da sballo: produce Ron Howard, sulla sceneggiatura ha messo le mani quel geniaccio danese di Anders Thomas Jensen, il “vilain” ha lo spudorato magnetismo di Matthew Mc Conaughey. Visto l’inizio, però, Dio ci protegga dal seguito.
Per chi non si fosse impelagato nei sette tomi della saga (con un extra, La leggenda del vento, uscito nel 2012), è bene sapere che è una specie di hobby infantile di Stephen King, coltivato a singhiozzo ma con perseveranza fin dall’età di 22 anni. L’ultimo capitolo è uscito nel 2004. Per decenni è stato il “buen retiro” letterario di un adoratore di Tolkien e dei western di Sergio Leone, che li ha metabolizzati e bizzarramente rifusi mescolando pistoleri e stregoni, percorsi iniziatici e universi paralleli. Tanto per dire, l’eroe (che sullo schermo è l’Idris Elba di 20 anni schiavo) ha la mira infallibile di un Clint Eastwood, ma si accompagna al ragazzino Jake, che ha l’innocenza salvifica di un hobbit.
Volendo, anche sulla pagina la saga è un pasticcio. Togli però la scrittura intrigante di King, stringi, semplifica, e ottieni un film che sembra un frullato di déjà vu. Purtroppo il regista Nikolaj Arcel ha scelto di imperniare il racconto sul piccolo Jake. Ma se arrivi dopo Il signore degli anelli e Harry Potter, devi sapere che ti dai la zappa sui piedi.
Senza contare che l’epica lotta tra forze del Bene e del Male ha ormai logorato la nostra pazienza di spettatori. Non sarà solo colpa di Stephen King se il suo Medio Mondo ricalca la Terra di Mezzo di Peter Jackson, se il letale Uomo in Nero (Mc Conaughey) oggi sembra un doppione di Voldemort e se i poteri psichici del frugoletto ricordano pericolosamente la Forza di Guerre stellari, ma grazie tante, abbiamo già dato.
In soldoni, la Torre Nera è il baluardo che garantisce il sistema degli Universi contro l’assedio dei Demoni che vivono fuori. Se va in briciole siamo fritti. Prova a condensare il racconto stile Bignami e diventa James Bond contro la Spectre. Nei romanzi abbondavano i riferimenti alla vita reale, Twin Towers comprese. Incerto tra il target adulto e quello infantile, il film si attesta prudentemente sulla modalità “fiaba”, smussando i picchi più dark, in pratica economizzando sulla paura. Effetti speciali, naturalmente. Ma perfino quelli con parsimonia.
Di godibile c’è solo l’impatto del Pistolero, l’Ultimo Cavaliere, con la New York di oggi. Azzanna un panino e chiede : “Cos’è ?” “Un hot dog.” “Selvaggi! Di che razza era ?”
E per fortuna c’è Matthew, che dove lo metti ti salva il film. Un bello vero che ha imparato l’arte suprema di non recitare. Non è una critica, è un complimento. Mc Conaughey si limita a trasferire la sua serafica impassibilità di ruolo in ruolo, buoni, cattivi, sieropositivi, detective, ribelli della Guerra di Secessione, killer di ghiaccio o stregoni non fa differenza. Pare strano, ma ci ha costruito il suo personale carisma. E, udite udite, funziona.
Teresa Marchesi
Giornalista, critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come Inviato Speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, "Effedià- Sulla mia cattiva strada", su Fabrizio De André, premiato con un Nastro d'Argento speciale e "Pivano Blues", su Fernanda Pivano, presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.
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