“Lavoro a mano armata”: il volto disumano del capitalismo. Eric Cantona disoccupato su Netflix

In tempi di confinamenti o semi confinamenti il dramma della perdita del lavoro torna di grande attualità. Su Netflix la miniserie francese “Lavoro a mano armata”, diretta da Ziad Doueiri (“L’insulto”) e tratta dal romanzo omonimo di Pierre Lemaitre (anche sceneggiatore). Un thriller che unisce i codici del genere alla denuncia di un sistema socio-economico (sempre più) spietato: mostrandoci la cupa parabola del protagonista Alain (un memorabile Éric Cantona), cinquantenne licenziato pronto a tutto (ma proprio tutto) pur di ritrovare un lavoro…

Cosa saresti disposto a fare, pur di ottenere un lavoro? Da questa domanda si dipana la parabola di Alain Delambre, licenziato (ormai sulla sessantina) e da sei anni disoccupato, malgrado le competenze e l’esperienza da responsabile delle risorse umane. Ma è il gioco (perverso) del capitalismo che massimizza i profitti e sacrifica le persone. Così Alain, tra lavoretti umilianti, conti da saldare e la rabbia che cova allontanandolo dai familiari, pur di uscire dal suo incubo si scopre disposto a molto, a troppo: anche ad accettare un’insolita proposta di impiego dalla multinazionale Exxya, che lo catapulterà in un incubo ancora peggiore.

È l’assunto di Lavoro a mano armata, romanzo (in originale Cadres noirs, edito in Italia da Fazi) dell’apprezzato scrittore di noir Pierre Lemaitre (Premio Goncourt 2013), e ora anche miniserie tv su Netflix (prodotta da Arte France e Mandarin), sceneggiata dallo stesso autore (con Perrine Margaine) e diretta da Ziad Doueiri.

Il titolo originale della trasposizione è Dérapages, slittamenti, sbandate: e Alain scivola progressivamente, nei sei episodi della miniserie, ai margini (e oltre) di una società dove tutto, dai luoghi istituzionali alle relazioni interpersonali, sembra dominato da quel «modello aziendale» iper-competitivo per cui «chi cerca lavoro è in guerra».

Ma è anche uno slittamento morale, perché lo stesso Alain, che ci narra a posteriori la sua vicenda da una cella di prigione, è il primo a dover fare sua la legge marziale non scritta che regola (ormai) i rapporti sociali: e la sua lotta per riconquistare una vita dignitosa si confonde allora col desiderio di rivalsa verso quel sistema e col rischio di diventarne lui stesso un perfetto esemplare.

I codici del thriller (urbano, carcerario, giudiziario) si incontrano perciò con le istanze di denuncia sociale antiliberista che animano una parte del cinema europeo (e non solo) contemporaneo: da Stephane Brizé (ma qui non ci sono sindacalisti battaglieri come il Vincent Lindon de In guerra) a Costa-Gavras (Cacciatore di teste viene spesso in mente), passando naturalmente per Ken Loach: alla filmografia del regista inglese rimanda lo stesso protagonista, l’attore ed ex calciatore Éric Cantona, che nella parte di se stesso dava lezioni di vita al postino in crisi de Il mio amico Eric. Fa tanto più effetto, allora, (ri)vederlo nel cupo ribaltamento del ruolo di allora, la frustrazione che erompe in gesti fatali dal (e del) corpo massiccio, lo sguardo sospeso tra confusione, dolore e nuova determinazione di vittima che ha deciso di giocare alle stesse regole dei carnefici.

La performance di Cantona è il primo punto di forza di un adattamento che ha invece qualche debolezza proprio nella veste narrativa “di genere”, penalizzata da alcune inverosimiglianze (è davvero così facile hackerare il sito di una multinazionale dell’aeronautica?). E che, soprattutto, al passaggio dalla pagina scritta alla serialità televisiva deve misurarsi con precedenti (fin troppo) impegnativi: su tutti, la discesa agli inferi del padre di famiglia Walter White in Breaking Bad.

A risollevare Lavoro a mano armata c’è però, anzitutto, la forza di una critica socio-politica che centra il bersaglio nel mostrarci il (nuovo) potere capitalistico prima di tutto come rappresentazione (ormai fuori controllo) di rappresentazioni: un balletto macabro di ruoli dove i fatti più eclatanti (sequestri, azioni terroristiche, processi) sono scene prestabilite per distogliere l’attenzione dalla guerra vera, fatta di transazioni finanziarie occulte e partite a scacchi dove i lavoratori (a vari livelli della gerarchia) sono pedoni da usare a piacimento. E dove uno “slittamento” imprevisto può gettare via qualche pezzo dalla scacchiera, ma non ancora (o non più) rovesciarne i presupposti: ed è la vera tragedia.

A garantire efficacia alla trasposizione, inoltre, c’è la regia del libanese Doueiri, che dopo L’insulto (candidato all’Oscar nel 2018) porta il suo sguardo dai conflitti (etnico-religiosi) della propria terra d’origine a quelli di una Francia emblema della crisi (non solo) occidentale. Doueiri dà qui il meglio della sua abilità nel creare e mantenere una tensione continua, tra movimenti di macchina inquieti che tallonano e accerchiano i personaggi e un uso del grandangolo che restituisce la dimensione  allucinata del protagonista e di un contesto sociale impazzito.

E il regista si conferma anche ottimo direttore d’attori. Oltre a Cantona, da menzionare Alex Lutz (César 2019 per Guy) nei panni di Dorfmann, volto luciferino del liberismo amorale, nonché la canadese (già presenza ricorrente nel cinema di Xavier Dolan) Suzanne Clément (la moglie di Alain, Nicole) e la giovane Alice de Lencquesaing (la figlia avvocata Lucie): voci e figure femminili, queste ultime, di un appello sempre più disperato a conservarsi umani, in un mondo che lo è sempre meno.