“Le città di pianura” il film italiano rivelazione a Cannes. Un sorpasso contemporaneo tra le rovine dell’Occidente
Passato al Festival nella sezione Un certain regard “Le città di pianura”, film rivelazione di Francesco Sossai, autore bellunese di 36 anni. Un road movie agrodolce in cerca delle ultime tracce di umanesimo, attraverso la devastazione del paesaggio, le rovine di quel Nord Est industriale che fu e, per estensione, l’imbarbarimento del nostro presente. Straordinari i due protagonisti e l’alchimia che li lega, le atmosfere rarefatte e acide, il raffinato linguaggio cinematografico e la storia. Il film (producono Vivo Film con RaiCinema) uscirà per Lucky Red, non perdetelo …
Capita a volte che sia Cannes a scoprire i talenti italiani. È successo dieci anni fa con Jonas Carpignano (Mediterranea alla Quinzaine), capita anche quest’anno con Francesco Sossai e il suo Le città di pianura, presentato a Un certain regard. Capita invece così di rado che un film italiano sia una folgorazione che l’entusiasmo è contagioso. Questo lo è. Per linguaggio cinematografico, atmosfere rarefatte e acide, contenuti originalissimi e interpreti legati insieme da un’alchimia straordinaria.
Trentaseinne nato nel bellunese, Francesco ha una formazione all’estero (Germania) e una sensibilità assolutamente fuori dal comune. È un tocco magico, infatti, quello che accompagna questo sorpasso dei giorni nostri, in cerca delle ultime tracce di umanesimo, attraverso la devastazione del paesaggio, le rovine di quel Nord Est industriale che fu e, per estensione, l’imbarbarimento del nostro presente.
“La crisi del 2008 da queste parti – dice il regista – è stata come la Seconda guerra mondiale. Ha lasciato solo rovine e gente che è rimasta al bar. Poco se n’è parlato e tantomeno l’ha fatto il cinema”.
Carlobianchi – nome e cognome attaccati – e Doriano (l’uno Sergio Romano attore di teatro, strepitoso; l’atro Pierpaolo Capovilla attore per caso), anche loro, da quella botta non si sono mai ripresi. Perso il lavoro in fabbrica, nel caso di Doriano anche la moglie, i bar, sono diventati la loro dimora. Passano le loro giornate, meglio le nottate, in macchina a viaggiare tra Treviso, Venezia, Trieste, ogni meta è buona per andare a bere l’ultimo bicchiere.
Da due, diventeranno tre, quando una notte si aggiungerà anche Giulio (Filippo Scotti consacrato da Sorrentino) giovane studente di architettura, compagno di viaggio da iniziare all’arte del bighellonaggio, ne sono maestri Carlobianchi e Doriano, ma anche un po’ Virgilio, in quel territorio devastato dai condomini intensivi, dall’edilizia dei geometri, dalle speculazioni ribattezzate infrastrutture. Nel film l’autostrada Lisbona-Treviso- Vienna, citata dai protagonisti, è la miglior risposta surreale a quell’altra grande opera, capolavoro leghista, che è stata l’autostrada Treviso-Trieste, dai pedaggi talmente cari, da essere deserta. E adesso ci risiamo anche col ponte sullo stretto.
È un mondo che si è dissolto quello di Carlobianchi e Doriano, figli degli anni Settanta che si andavano a mangiare lumache e polenta dalla Mary, appena di là del confine in Slovenia. Adesso c’è il il cocktail di gamberetti, retaggio anni Ottanta, – con gioco di lenti lo vediamo ingrandito come un totem – con quella salsa rosa che fa vomitare – letteralmente – uno dei protagonisti. Quando è cominciato tutto questo?
L’inizio del film da un’indicazione. L’industrialotto col volto azzeccato di Roberto Citran (“ho la terza media ma che mi chiami dottore”) che scende dall’elicottero per regalare il Rolex d’oro all’operaio che va in pensione (“Grazie Cavaliere, grazie Cavaliere”) data l’inizio di quella storia, ribadendo i ruoli sociali (“ognuno al suo posto”) e strizzando l’occhio a Fantozzi (ci tiene a sottolinearlo Francesco Sossai).
Adesso la pianura dalle città è stata mangiata. L’imbarbarimento, la perdita d’identità e futuro sono il nostro presente. Ma il finale non è poi così buio. Nella tomba Brion, magnifico esempio dell’architettura di Carlo Scarpa, i tre si ritrovano su iniziativa di Giulio. “Questa non è solo una tomba – dirà ai compagni di viaggio – , ma è una macchina per eleborare il lutto”. L’arte, la civiltà, l’umanesimo, insomma, sono sempre la strada per salvarsi.
Salutato il ragazzo che finalmente prenderà la sua strada, Carlobianchi e Doriano, stavolta invece di farsi l’utimo goccio, prenderanno un gelato. E l’uno gustandolo commenterà: “Lo lo credevo amaro, ma sul finale è dolce”. Proprio come questo film miracoloso.
Gabriella Gallozzi
Giornalista e critica cinematografica. Fondatrice e direttrice di Bookciak Magazine e dei premi Bookciak, Azione! e Bookciak Legge. Prima per 26 anni a l'Unità.
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