Le metamorfosi di Dudok de Wit, magnifica poesia d’animazione

È “La tartaruga rossa”, nuovo film d’animazione dell’olandese Michaël Dudok de Wit, in sala per Bim il 27, 28 e 29 marzo. Un naufrago su un’isola deserta “provoca” la metamorfosi di una testuggine in donna. Un gioiellino poetico in cui l’assoluta mancanza di dialoghi e parole – ma ci sono, ben presenti e suggestivi i rumori e le voci della natura – suona meglio dei ritmici versi di un poema o di un’elegia. Da non perdere…

Nelle sale si ferma soltanto per tre giorni (27, 28 e 29 marzo). Ormai è quasi un destino per i film d’animazione e d’autore. Speriamo, però, che siano sufficienti a non farvi perdere questo gioiello di Michaël Dudok de Wit: La tartaruga rossa (distribuito da Bim).

Il regista olandese Michaël Dudok de Wit (1953) lo conoscevamo fin dai tempi di The Monk and the Fish (1994), un esercizio ironico e quasi metafisico su un monaco che insegue un pesce; e di Father and Daughter (Oscar 1990 per il miglior corto in animazione), struggente scorrere del tempo di una bambina alla ricerca del padre perduto. Anche in questo suo primo lungometraggio animato, La tartaruga rossa (era candidato all’Oscar di quest’anno ma è stato surclassato – come da contratto – da Zootropolis) ci sono un padre, un figlio e il passare inesorabile delle stagioni della vita. Ma c’è anche una misteriosa e sorprendente presenza.

Naufrago su un’isola deserta, il protagonista non perde tempo a fare il Robinson Crusoe, a costruire, capanne, a coltivare piccoli orticelli in attesa dell’arrivo di un servizievole Venerdì. Mette insieme quattro tronchi di alberi caduti e improvvisa una zattera che dovrebbe portarlo alla salvezza. Una, due, tre volte ci prova ma a pochi metri dalla riva un’invisibile forza sottomarina sperona la zattera e lo ricaccia a riva, non prima di essersi finalmente mostrata per quello che è: un’enorme tartaruga rossa. Così, quando una mattina la testuggine approda sulla spiaggia e si trascina faticosamente sulla battigia, il nostro non ci vede più dalla collera, prende un tronco, la prende a mazzate sulla testa, tramortisce la bestia e la rovescia sul dorso, condannandola così alla morte sotto il sole e lontano dall’acqua.

Inutile, dopo, il pentimento, i tentativi di rianimarla spruzzandola d’acqua. Fino a che una bella mattina da quel guscio, invece della rugosa testa del rettile, spunta fuori quella di una bella fanciulla dalla lunga chioma rossa. Il naufrago raddoppia gli sforzi per riportarla in vita, costruisce una tettoia di foglie per ripararla dal sole e la fa bere. Il carapace, intanto, si è fratturato e, come in una metamorfosi, la farfalla/tartaruga/donna si libera del vecchio abito. Fa la donna per davvero l’ex tartaruga, seduce con discrezione l’uomo, l’amore scocca tra i due e il frutto dell’unione, manco a dirlo, sarà un bel bambino… Ci fermiamo qui, non solo per rischi di spoiler eccessivi, ma anche perché, a raccontarla così, potreste pensare di trovarvi tra gli occhi un melò banalotto e a lieto fine. E invece…

Invece Michaël Dudok de Wit realizza un gioiellino poetico in cui l’assoluta mancanza di dialoghi e parole – ma ci sono, ben presenti e suggestivi i rumori e le voci della natura – suona meglio dei ritmici versi di un poema o di un’elegia. Dovete solo abbandonarvi al flusso delle immagini, dei disegni, dei colori e alle voci di dentro delle anime dei personaggi.

Anime un po’ giapponesi – il film è coprodotto dallo Studio Ghibli, quello di Hayao Miyazaki e di Isao Takahata (che firma direttamente la produzione) e le suggestioni di quella scuola sono evidenti: dal tema animistico e metamorfico all’apparizione, davvero miyazachiana di un’animale mitico -; ma sono anime, peraltro, saldamente europee, anzi franco-belghe-olandesi, vista la filiazione dello stile ligne claire dei disegni.

Lo stesso De Wit, in un’intervista ha reso merito alla linea chiara di Hergé, il papà di Tintin. E dunque linee nette e semplici, colori quasi piatti, addolciti dalle sfumature degli acquarelli. La metafora sul tempo, sulla vita, sulla morte e sulla necessità dell’amore recita le sue parti su un palcoscenico naturale di un’isola meravigliosa.

Però, attenzione: La tartaruga rossa non è un film banalmente ecologista o scioccamente animalista. La natura vi appare ora indifferente, ora persino matrigna (con un disastroso Tsunami) e gli animali non sono ridotti a spalle comiche antropomorfe (ci provano un po’ i granchi invadenti e perennemente affamati): ciascuno fa la sua parte e resta al proprio posto. Alla natura e al mare – dopo la metamorfica parentesi terrena – ritorneranno soltanto le vere tartarughe o le loro anime. Le anime degli uomini restano a terra e, nel mare, possono soltanto sognare di nuotarvi.