Oscar alla lotta di classe e contro i nuovi nazismi. “Parasite”, “Jojo Rabbit”, “Joker”

La novantaduesima cerimonia degli Oscar si rivela una delle più schierate di sempre: trionfa “Parasite” (sulle diseguaglianze sociali in Corea del Sud) con quattro ambitissime statuette, tra cui quella al miglior film (prima volta per un lungometraggio in lingua non inglese). Ma si affermano anche i più “politici” tra gli adattamenti da opere letterarie: la satira antinazista di “Jojo Rabbit” (miglior sceneggiatura non originale) e il “Joker “di Joaquin Phoenix (miglior attore protagonista). Con buona pace di “1917″, “C’era una volta a… Hollywood” e dei film Netflix, che si spartiscono (non tutto) il rimanente…

Oscar alla lotta di classe in Corea del Sud: è Parasite, di Bong Joon-ho, a conquistarsi le statuette principali alla cerimonia dell’Academy 2020 (domenica 9 febbraio), tra cui quella al miglior film (per la prima volta in lingua non inglese). Il miglior adattamento è invece Jojo Rabbit, la satira di Taika Waititi (da Christine Leunens) contro i  nuovi nazismi. Il Joker immerso fino al collo nelle tensioni del neoliberismo al capolinea si conferma miglior protagonista maschile, mentre gli operai di American Factory vincono tra i documentari. Saranno diventati tutti comunisti all’Academy o è un’ulteriore svolta della reazione democratica all’oscurantismo di Trump?

Probabilmente il clima pre-elezioni si comincia a respirare anche a Hollywood, che da quel 2016 non ha mai mancato di rimarcare il proprio orientamento avverso al tycoon diventato presidente. A quest’ultimo giro, non solo l’Academy continua a mostrarsi schierata, ma radicalizza il tiro. E lo vediamo sin dai due adattamenti che si sono fatti maggiormente notare domenica, Jojo Rabbit Joker. Il primo, tratto dal romanzo Il cielo in gabbia (2004, SEM) di Christine Leunens, si aggiudica il riconoscimento alla miglior sceneggiatura non originale.

Infatti, la satira politica di Taika Waititi si proietta ben oltre la Germania del ’45: l’ironia surreale e il giovanissimo protagonista che dialoga con l'”amico immaginario” Hitler irridono anzitutto i (neo)nazisti di oggi. Waititi (neozelandese di origine Maori) ha poi dedicato l’Oscar a «tutti i bambini indigeni nel mondo che vogliono fare arte e danza e scrivere storie».

Ma anche quel Joker che rilegge le origini della nemesi di Batman come un frutto del neoliberismo selvaggio che lascia indietro le persone in difficoltà ottiene due statuette: alla colonna sonora (di Hildur Guðnadóttir) e alla performance del protagonista Joaquin Phoenix (primo Oscar dopo tre nomination).

A quest’ultimo si deve, non a caso, uno dei discorsi di ringraziamento più “politici” della serata: l’attore ha affermato che parlare dei diritti di ogni categoria oppressa e discriminata fa parte della stessa «lotta contro l’idea che una nazione, un popolo, una razza, un genere o una specie abbia diritto a dominare, controllare, usare e sfruttare qualcun altro impunemente».

Meno soddisfazioni, invece, per adattamenti non così incisivi sul piano della critica socio-politica. Le Piccole donne (dai romanzi di Louisa May Alcott) di Greta Gerwing (già al centro di polemiche per la mancata nomination alla regia) devono accontentarsi dell’Oscar ai costumi (di Jacqueline Durran). La corsa automobilistica di Le Mans ’66, portata sullo schermo da James Mangold dopo il libro Go Like Hell di A. J. Baime, ottiene soltanto i premi al miglior montaggio (di Andrew Buckland e Michael McCusker) e montaggio sonoro (Donald Sylvester).

La (storica) sorpresa di quest’anno (che dà la misura di quanto la Hollywood odierna non possa e non voglia estraniarsi dalle questioni sociali) si chiama Parasite. Quest’ultimo trionfa non solo col (quasi scontato) Oscar al miglior film internazionale, ma anche col premio alla regia, alla sceneggiatura originale (di Bong e di Han Jin-won) e, soprattutto, al miglior film.

Non era mai successo che un’opera in lingua non inglese vincesse nella più ambita delle categorie. E non se l’aspettava nemmeno Bong, che, come ha ammesso ironicamente, credeva di aver sbancato a sufficienza con l’Oscar alla regia: «pensavo fossi a posto per oggi ed ero pronto a rilassarmi».

Se qualcuno avesse ancora dubbi sull’orientamento politico dell’Academy (e di questa novantaduesima edizione degli Oscar in particolare), può dare un’occhiata anche al documentario vincitore: American Factory, di Steven Bognar e Julia Reichert, incentrato sulla chiusura di uno stabilimento della General Motors in Ohio e prodotto da Michelle e Barack Obama.

Gli sconfitti di quest’anno? Sicuramente 1917 di Sam Mendes, dato per favorito dopo il Golden Globe (miglior film drammatico) e il trionfo ai BAFTA. Il piano-sequenza del regista inglese sulla Grande Guerra deve farsi bastare invece i riconoscimenti alla fotografia (di Roger Deakins), al sonoro (di Stuart Wilson e Mark Taylor) e agli effetti speciali (di Greg Butler, Pier Lefebvre, Dominic Tuohy e Guillaume Rocheron).

Ma non sfonda nemmeno il cinema angloamericano che riflette su se stesso e sul proprio immaginario (anziché sui problemi del mondo fuori dalla “Fabbrica dei Sogni”): con l’eccezione di Renée Zellweger, la cui Judy conquista l’ennesimo riconoscimento alla miglior protagonista femminile, ben poco resta ai film sulle star americane (vere o fittizie): ne fa le spese soprattutto Quentin Tarantino, il cui C’era una volta… a Hollywood, a parte l’attesa conferma di Brad Pitt come miglior attore non protagonista, si aggiudica soltanto la statuetta alla scenografia (di Nancy Haigh e Barbara Ling).

Delusione, nel complesso, anche per Netflix, malgrado la vittoria di American Factory (distribuito sulla piattaforma insieme a un altro docu-film candidato, Democrazia al limite). Il colosso dello streaming però portava in gara anche (e soprattutto) due tra i titoli più acclamati dello scorso anno (The IrishmanStoria di un matrimonio) nelle categorie principali, nonché I due papi (in corsa tra le sceneggiature adattate e le interpretazioni maschili), un corto documentario e ben due lungometraggi di animazione.

Su questi fronti Netflix esce in gran parte sconfitta, eccezion fatta per il premio a Laura Dern (miglior attrice non protagonista con Storia di un matrimonio), mentre tra i film d’animazione la spuntano i fuoriclasse della Pixar con Toy Story 4.

Riconoscimenti, infine, anche per il biopic Rocket Man su Elton John- miglior canzone originale (I’m Gonna) Love Me Again-, per il trucco di Bombshell (nelle nostre sale a marzo) e per i cortometraggi The Neighbors’ WindowHair Love (animazione) e Learning to Skateboard in a Warzone (If You’re a Girl), documentario. Quest’ultimo mostra una scuola di skateboard per ragazze povere a Kabul, dove alle donne sono ancora interdette le competizioni sportive: a proposito di politica…