Otar e Ugo, dialogo nel cuore di un’estate lontana. Ricordando Ioseliani (appena scomparso) e Gregoretti, artisti della provocazione
È scomparso lo scorso 17 dicembre nella sua Tiblisi a 89 anni Otar Ioseliani, straordinario autore dall’originalità dirompente, poetico, ironico e sovversivo. Censurato in URSS – ovviamente – ha riparato in Francia dove ha girato i capolavori che l’hanno reso celebre e celebrato ai festival internazionali (“Un incendio visto da lontano”, “I favoriti della luna”, “Caccia alle farfalle”, “Giardini in autunno”). Pubblichiamo – da l’Unità del 20 luglio 2013 – del suo incontro con Ugo Gregoretti, altro geniale artista della provocazione che ci ha lasciati – in occasione dei vent’anni del Festival di Capalbio …
Otar e Ugo, dialogo nel cuore dell’estate tra due artisti della provocazione. Doveva essere uno di quegli incontri da Festival per attirare il pubblico dei vacanzieri, si è trasformato in una sorta di «duello» tra grandi vecchi che tante ne hanno viste e, ancor di più ne hanno raccontate col loro cinema.
Sguardi lontani per latitudine: la Georgia e poi la Francia di Iosseliani, l’Italia sotto e sopratraccia di Gregoretti, «l’eterno apprendista» capace di passare dall’opera alla televisione, dalla prosa al cinema.
Ma sentimenti vicini, taglienti ed ironici sulla realtà, uniti in una sorta di «parentela» artistica e generazionale (80 anni Otar, 83 Ugo) che li ha messi insieme, il 19 luglio 2013, nel corso del Festival dei corti di Capalbio, intento a festeggiare i suoi vent’anni di attività con gli «effetti speciali». E qualche inciampo organizzativo.
Alla base un incontro remoto. Quando Gregoretti – suo il racconto – fu testimone oculare dell’arrivo di Iosseliani, per la prima volta a Roma, a bordo di una vespa, tradotto dall’aeroporto di Fiumicino da una «congrega di cinefili», di cui faceva parte anche un giovanissimo Enrico Ghezzi.
Le glorie internazionali de I favoriti della luna erano ancora di là da venire. I due si raccontano, intonano successi del bel canto napoletano, si scambiano battute sul cinema e sull’esistenza. A dire le diversità dei mondi conosciuti. «Se dico gulag – spara Otar – tu cosa pensi? Sicuramente ne hai un’idea astratta. Per me, invece, è stato il luogo dove mio padre ha vissuto per trent’anni».
La tv poi è un campo di battaglia. Iosseliani demonizza persino quella «pedagogica» di Rossellini. Gregoretti da grande esploratore del mezzo preferisce ricordare che non ci sono demoni come non ci sono cose sacre. Piuttosto proprio per questa sua indole da «eterno apprendista» ha scatenato il «quadrilatero» dei critici di ogni disciplina artistica. Salvo poi scoprire che dopo le stroncature ai suoi lavori, fatalità, ognuno di questi passava a miglior vita. Risatine fra il pubblico.
Il cinema, ancora. «Vi assicuro che Fellini adorava la pellicola, adorava toccarla, lavorarla. Ora quella schifezza del digitale ha reso i registi schiavi degli ingegneri» affonda Otar Iosseliani al termine di una breve lezione sui formati del cinema dai Lumière ad oggi.
«Io non ho mai avuto una particolare attrazione per la pellicola – ribatte Gregoretti -, mi piaceva il 36millimetri perché ci facevo i nasi da Pinocchio per i miei figli e col 16 millimetri le fisarmoniche». Otar riceve l’affondo e sorride. Il pubblico applaude. Mentre il festival somministra pillole scelte della loro opere. Tranche de vie operaia in una fabbrica metallurgica della Georgia (Ghisa) dei primi anni Sessanta, filmata da Iosseliani in uno struggente e poetico bianco e nero che davvero ha poco a che fare con la retorica dello stacanovismo.
Oppure il lento andare di una giornata di provincia, proprio qui in Toscana, all’interno di un monastero di agostiniani (Un piccolo monastero in Toscana) che Otar racconta con sguardo laico, catturando i contrasti tra le fatiche dei campi, lo stare insieme e i canti d’osteria e i silenzi congelati dei ricchi borghesi alla tavola del Natale. La cultura, del resto, Otar l’ha sempre detto altro non è «che sedersi intorno a un tavolo, chiacchierare, bere e cantare insieme».
Come quei «canti maremmani» che un ironico Gregoretti in veste di «etnografo» va a scovare insieme al figlio nel suo Carosello per la Coop – altra chicca mostrata al festival – spiegandoci che allora, per i registi comunisti, la pubblicità era il diavolo, ma «per le cooperative» si poteva pur fare un’eccezione. O ancora i canti delle mondine, che rievoca attraverso i ricordi di «nonna Manara», straordinario ritratto di «rivoluzionaria» di inizio secolo scorso che ha condito la sua vita tra carcere fascista e famiglia numerosa.
Cose che il cinema di oggi non racconta più. Rincara Otar, sottolineando la capacità di Germi o De Sica di «rimandare il riflesso della vita quotidiana». «Adesso le sale sono piene di mangiatori di pop corn – dice il georgiano -, un pubblico di melanzane che vuole solo storie che non raccontano nulla in cui riconoscersi. Il pubblico è diventato la vera censura e i produttori non danno più i soldi per chi non riempie le sale». La piazza di Capalbio invece è piena. Forse un pubblico di melanzane che stavolta ha scelto di vedere qualcosa di diverso.
Gabriella Gallozzi
Giornalista e critica cinematografica. Fondatrice e direttrice di Bookciak Magazine e del premio Bookciak, Azione!. E prima, per 26 anni, a l'Unità.
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