Piccole storie di liberazione. Sharon che uscì dal “Cratere”
In sala dal 12 aprile (per La Sarraz distribuzione), “Il cratere”, film di Luca Bellino e Silvia Luzi, già autori del potente “Dell’arte della guerra” (2012). Ancora una storia di ultimi, marginalità e riscatto in una Napoli contemporanea dove un padre che vive di riffe cerca la “svolta” attraverso la figlia dalla voce d’oro. Un film dall’intelligenza cinematografica fuori dal comune, tra Verga e Flaubert. Passato alla Settima della critica a Venezia 2017 …
Il prologo deve fare da guida. Ed è bene tenerlo sempre a mente. Il film comincia con un’adolescente (che sarà la protagonista del lungometraggio) che ripete davanti ad uno specchio, visibilmente distratta, la lezione su Verga e su Flaubert. Del drammaturgo siciliano ricorda gli anni finali, il ritorno a Catania, la sua ormai dilagante sfiducia nelle idee nuove e nell’impossibilità di riscatto degli ultimi. Poi, in francese, la bambina, sempre davanti allo specchio e sempre provando improbabili mosse di danza, ricorda una massima di Flaubert: che quando si osserva, bisogna avere il coraggio di abbandonare la propria visione, i propri sentimenti. Si osserva e basta.
Sono criteri che possono (devono?) fare da guida al nuovo lavoro di Luca Bellino e Silvia Luzi: Il cratere.
Un titolo strano, atipico per la vicenda di un microcosmo, a Napoli o a due passi da lì. Dove una numerosissima famiglia vive – “sopravvive” ma senza stenti clamorosi – girando fiere e allestendo, su un camioncino, una sorta di riffa a premi, dove si vincono peluche. Pelusche e bambolotti che la famiglia ricicla, raccogliendoli dappertutto.
E qui, in una casa grande, né ricca né povera, il padre decide di “investire” su Sharon, la più piccola ma non il più piccolo della famiglia. Vuole farla diventare una cantante – ne ha le capacità -, una cantante neomelodica. Che del resto è l’unica musica che si ascolta in casa.
E la musica, i suoni sono forse i protagonisti più marcati del film. Sonorità fatte di tante cose: di un dialetto cadenzato, mai urlato, appunto musicale. Forse la vera colonna sonora. Ma musica fatta dalle canzoni, anzi dalla canzone; che il padre intuisce essere un bestseller e che vorrebbe che la figlia incidesse. E con la quale dovrebbe presentarsi al concorso canoro di una tv privata.
Ma le canzoni anche a Napoli costano. Occorre pagare chi l’ha scritta, occorre pagare chi la registra, lo studio, l’arrangiamento. E come se non bastasse occorre che Sharò eserciti la sua voce.
Il padre – la cui musicalità del linguaggio è ritmata dai silenzi delle sigarette – vuole, pretende che la figlia diventi una piccola star. E per quest’obiettivo costringe ad ulteriori sacrifici tutta la famiglia. Ma non è Bellissima, qui il padre insegue solo la sua personalissima idea di riscatto.
Lei prima si piega. Poi rifiuta. Senza clamori, senza isterie. Rompendo quel cerchio soffocante che sembrava doverla stritolare.
Se ne va, rompendo il cerchio. Uscendo dal cerchio. Ed ecco il nome del film: Il cratere, che è anche una costellazione (Crater). Luminosissima, bellissima. Ma lontana, che forse rappresenta un sogno solo per pochi. O forse più semplicemente il cratere è quello del Vesuvio, di quei bordi che delimitano una forza che si vuole costringere.
E tutto il film è attraversato da questa sensazione di claustrofobia. Raccontata con un’intelligenza cinematografica fuori dal comune. Che non ti soffoca, che non ti fa sobbalzare sulla sedia a prendere le parti della ragazzina. Neanche quando il padre le impedisce di giocare per obbligarla a fare gli esercizi vocali. Anche in questi casi – va detto – il padre non urla, non è violento, o almeno non è violento come vorrebbe il clichè tradizionale. Non alza le mani, sicuro di essere nel giusto. Sicuro che quella sia la strada giusta per la sua voglia di riscatto.
A tutto questo Sharon risponde prima col silenzio. Poi con l’uscita di casa. Semplice, quasi naturale.
Ma chi guarda era stato avvertito: non si giudica. Si prende atto che quelle due solitudini non si sarebbero mai potute incontrare.
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