Il pugile del Duce cancellato dal Duce
L’incredibile storia di Leone Jacovacci, pugile romano di origini congolesi e campione d’Europa nel 1928. Una vittoria che il fascismo cancellò dalle cronache e dalla storia, ma che ora rivive grazie al doc “Il pugile del duce” di Tony Saccucci, basato sul libro di Mauro Valeri. In sala dal 21 marzo, in occasione della giornata mondiale contro il razzismo…
Dice più la radiocronaca di un incontro di pugilato del 24 giugno 1928 che un intero trattato di storia moderna e contemporanea. Eppure non troveremo mai negli annali sportivi e tantomeno nei libri di storia il nome di colui che avrebbe potuto rendere memorabile quell’incontro, destinato ad assegnare a un pugile italiano il titolo di campione d’Europa in piena era fascista.
La storia di Leone Jacovacci, pugile di origine congolese, con la pelle nera ma italianissimo, è stata raccontata da Mauro Valeri nel libro Nero di Roma (Palombi editore). Ed è stata ora ricostruita – in gran parte con materiale d’archivio, interviste e documenti originali – nel film di Tony Saccucci, Il pugile del duce, prodotto e distribuito da Istituto Luce Cinecittà che lo porta in sala dal 21 marzo, in occasione della giornata mondiale contro il razzismo.
Leone Jacovacci era un pugile “tecnicamente perfetto, agile, intelligente e potente”, parlava perfettamente quattro lingue ma aveva un grave “difetto” per l’epoca: era nato con la pelle nera. Il padre, romano “de Roma”, lo aveva avuto con una donna congolese durante un periodo di lavoro in Congo e poi lo aveva portato con sé in Italia.
Era un’epoca in cui la “difesa della razza” stava diventando l’imperativo di un regime che non si era ancora cimentato a fondo con le colonie e con le leggi razziali ma che stava ineluttabilmente scivolando su quella china.
Non trovando in Italia terreno ideale per le sue ambizioni di pugile, Leone aveva girovagato per mezza Europa, inventandosi un nome di comodo, Jack Douglas Walker (Jack in onore di Dempsey, mito del pugilato americano), e un’improbabile origine italo-americana per accedere alle borse messe in palio per gli incontri di pugilato.
L’assurdo è che ancora oggi i motori di ricerca lo indicano come pugile italo-americano. Leone-Jack Walker riuscì a imporsi nel mondo della boxe vincendo quasi tutti gli incontri, e tuttavia non ottenne alcun titolo perché privo di una nazionalità riconosciuta ufficialmente. La cittadinanza italiana gli fu concessa solo quando la sua fama giunse di riflesso in Italia, e ciò gli consentì di affrontare con il suo vero nome il più forte pugile dell’epoca, il fascista doc Mario Bosisio, fino allora detentore del titolo europeo dei pesi medio-massimi.
L’incontro del 24 giugno diventa così il momento cruciale della carriera di Jacovacci, e anche quello attorno al quale ruota il film di Tony Saccucci. In effetti si trattò di un evento epocale: il titolo di campione europeo messo in palio tra due pugili italiani, in un momento storico in cui la boxe era lo sport nazionale incontrastato. Non solo: fu questo il primo incontro raccontato in radiocronaca diretta; lo Stadio di Roma, poi diventato Stadio Flaminio, si riempì all’inverosimile, con decine di migliaia di spettatori giunti nella Capitale con treni speciali da tutta Italia; persino il vate D’Annunzio aveva annunciato la sua partecipazione, e si intravedono in prima fila due gerarchi di rango come Balbo e Bottai.
Tuttavia le eccezionali immagini girate dall’Istituto Luce si interrompono inspiegabilmente prima del termine dell’incontro, dominato fino a quel momento da Jacovacci. Alla fine fu lui il vincitore, ma la foto del pugno alzato in segno di vittoria fu fatta scomparire immediatamente. Anzi: al di là dell’assegnazione del titolo, a non essere omologata fu la notizia stessa della vittoria del pugile nero, perché – come scrisse il giornalista (!) Adolfo Cotronei sulla prima pagina della Gazzetta dello Sport – “non può essere un nero a rappresentare l’Italia all’estero”.
E difatti, di lì a poco, l’opera di insabbiamento della vittoria di Jacovacci fu portata a termine, proprio mentre stava iniziando la carriera di cartapesta del pugile bianco e fascista Primo Carnera.
Jacovacci non solo non trasse alcun beneficio da quella vittoria, che pure lo aveva proiettato ai vertici della popolarità, ma si avviò da allora lungo una china che lo indusse ad accettare borse sempre più misere, e poi incontri di catch fino all’inesorabile oblio. Ma questa è una storia comune nel mondo del pugilato. Jacovacci è morto ottantunenne a Roma nel 1983, dimenticato da tutti.
C’è voluto quasi un secolo per riesumare il suo mito con il libro di Valeri e il film di Saccucci. Eppure quella di Jacovacci non è solo una bella storia. È anche un’ammonizione contro certi vizi ricorrenti nella storia dell’umanità, oggi più che mai in primo piano: il razzismo innanzi tutto, ma anche la manipolazione delle notizie, lo sport come strumento della politica, l’opera costante e implacabile di spersonalizzazione degli individui. Infine la rimozione e l’autocensura.
Nel materiale d’archivio conservato dallo stesso Jacovacci, che tutto annotava con precisione e sul quale hanno lavorato accuratamente gli autori del libro e del film, manca proprio la segnalazione di quella data fatidica, il 24 giugno 1928. La data è stata aggiunta da Jacovacci in un secondo momento, chissà perché con una penna rossa per distinguerla dalle altre. Ma come può il Nero di Roma aver dimenticato così a lungo quel giorno, il più importante della sua vita?
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