Quando c’era pace in Palestina e i bambini avevano tre padri. “Per amore di una donna” è (anche) un film

Presentato (e premiato dal pubblico) al Bif&st di Bari, arriva in sala il 29 maggio (per Fandango) “Per amore di una donna” nuovo film di Guido Chiesa ispirato alle pagine dell’omonimo romanzo dello scrittore israeliano Meir Shalev, scomparso nel 2023. Una storia a cavallo di due epoche, gli anni Trenta e i Settanta, seguendo la storia di una donna vissuta in Palestina, all’epoca del protettorato britannico, in cui molti ebrei fuggendo dalle persecuzioni d’Europa cercavano di costruire lì una nuova vita, solidale e socialista. E dove le relazioni con gli abitanti palestinesi erano di reciproco rispetto …

C’è un romanzo, Per amore di una donna (Sperling & Kupfer 1999), che racconta una terribile storia di famiglia negli anni 30, un abbandono e poi una violenza inaccettabile. Lo ha scritto Meir Shalev, tra i maggiori esponenti della letteratura israeliana contemporanea scomparso nel 2023, racconta una storia ambientata nel protettorato britannico di Palestina, nell’epoca in cui molti ebrei fuggendo dalle persecuzioni d’Europa cercavano di costruire lì una nuova vita, solidale e socialista. Un clima da pionieri, un modo di vita ancora non codificato e quindi tutto da inventare. Dove molto è possibile.

E c’è un film, Per amore di una donna – premiato come miglior film al Bifest 2025, prodotto da Colorado Film Production e Vivo film con Rai Cinema e distribuito da Fandango, sarà in sala dal 29 maggio – che intreccia a quella vicenda (ed è questa l’invenzione del regista) il viaggio di Ester, donna americana inquieta e spigolosa, negli anni 70. Ester sa di essere nata a Tell Aviv, ma poco d’altro, è arrivata in America a meno di due anni e quello pensa di sé, che è americana.

Quando la mamma muore, le lascia una lettera, un ciondolo, una mezza fotografia. E la richiesta di andare lì, nel villaggio di provenienza del padre, per ricostruire una storia che la madre non sa del tutto, e che pensa che la figlia debba sapere.

Il film, diretto da Guido Chiesa, autore dalla produzione variegata (Il partigiano Johnny, Io sono con te, Ti presento Sofia, 30 notti con la mia ex), intreccia i due periodi. La vita aspra e faticosa della campagna degli anni ’30 in un moshav ebraico, dove le relazioni con gli abitanti palestinesi erano di reciproco rispetto, con la ricerca nella Gerusalemme moderna, militari, mitra spianati, check point, presagio del conflitto sempre crescente che è arrivato al parossismo insopportabile della guerra di oggi.

Il contrasto è sempre più evidente. Nel moshav, un villaggio in cui, differentemente dal kibbutz, i servizi sono in comune ma la proprietà e la gestione delle fattorie è delle singole famiglie, la vita è dura, il lavoro sporco, ma le relazioni sono profonde e raffinate. Così avviene che una donna possa decidere che suo figlio abbia tre padri, così che nessuno dei tre possa imporre la sua autorità patriarcale ma ognuno gli sia da guida e da protezione. E che i padri siano d’accordo, per amore di una donna, appunto. Uomini diversissimi tra loro, il commerciante con l’anima, il sognatore romantico allevatore di polli e canarini, il fattore taciturno che alleva bovini.

Il figlio di tre padri, l’ornitologo Zayde, è una delle persone che incontra Ester, alla ricerca delle sue origini. Le scartoffie degli archivi ufficiali sono mute, questa volta, ma parlano le persone. Chi sa offre il suo chicco di riso, e chicco dopo chicco, accompagnata da Zayde, alla fine Ester avrà la sua risposta. Una risposta sconvolgente: piena di dolore per quel che avvenne allora, nel moshav. Ma anche piena di speranza e di vita, per quel che avviene ora, nei giorni nostri.

Sembra strano parlare di speranza per Palestina e Israele, in questo tempo terribile in cui non c’è giorno senza strage, molti i civili uccisi, moltissimi i bambini. Guido Chiesa, il regista, spiega: “ in questa storia abbiamo rintracciato qualcosa in grado di interrogarci profondamente, perché, come tutte le grandi storie, tocca temi universali. Temi che ci hanno permesso di intraprendere un viaggio incontro alle diverse facce dell’amore. Mostrando quanto sia doloroso, e allo stesso tempo fondamentale, scoprire la verità della propria storia. E alla fine, Esther e Zayde, dopo aver ripercorso lo stesso cammino di amore, morte e rinascita dei loro antenati, comprendono l’importanza di entrare nella vita con empatia, con tutte le sue cadute e i suoi drammi. Non è un film politico, eppure il senso profondo che lo attraversa può assumere un valore altamente politico: anche durante i momenti bui della storia, donne e uomini si innamorano, formano famiglie, comunità, nascono bambini. E allora non c’è più distinzione tra passato e presente, o tra culture e popoli, e possiamo riconoscerci parte di uno stesso destino comune e universale, dove è l’amore che salva”.

Un destino in cui è fortissimo il ruolo delle donne. Non solo la mamma di Ester con il suo ultimo mandato, non solo Ester (Mili Avital), con la sua ricerca rabbiosa. Bellissima è la figura di Yehudit (Ana Ularu) e la tenacia con cui ricostruisce una strategia di una vita per se e il suo bambino, regalandogli appunto tre padri e la loro tripla protezione.

Ma se l’amore salva, come dice il regista, la guerra uccide, non solo le persone. Uccide anche l’amore e la sua possibilità, anche in terra di Palestina. Dovremmo continuare a ricordarcene tutti, in questi tempi bui, prima che sia troppo tardi.


Ella Baffoni

Giornalista dal 1964. Fin dal 1973 ha lavorato al Manifesto. Nel 2002 è andata all'Unità, al desk del politico. Negli ultimi anni è stata agli esteri e ha collaborato all'online. Insegna italiano a stranieri. Collabora a Strisciarossa. Appassionata lettrice e viaggiatrice, ha due figlie. È comunista.

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