Quegli alcolisti dei miei genitori. L’Irlanda (anni ’60) piena d’umorismo di “Tatty”

Arriva in libreria “Tatty”, primo libro tradotto in italiano (Edizioni paginauno) della scrittrice irlandese Christine Dwyer Hickey. Il palcoscenico è un po’ quello della Dublino di Roddy Doyle che abbiamo amato in “The Commitments” e “The Snapper”. Famiglie piene di figli, religione cattolica, genitori alcolisti e teste dure. A raccontarci l’inevitabile disastro familiare è la piccola Tatty, ragazzina piena di fantasia e d’ironia. Un racconto forte e semplice, introspettivo ed emozionale sull’Irlanda povera ed orgogliosa dei Sessanta…

La piccola, intraprendente, seducente Caroline ha come nomignolo “Tatty”; che sta per “pettegola piena di fantasia” (una “tell-tale-tattler”); così la definisce l’adorato padre.

Forte e semplice, introspettivo ed emozionale Tatty (Edizioni paginauno, 2017) è il primo romanzo tradotto in lingua italiana della irlandese Christine Dwyer Hickey, scrittrice ben conosciuta ed apprezzata e non solo in patria, essendo stato proprio Tatty campione di vendite in Irlanda ma anche in Inghilterra, oltreché tradotto in molte nazioni.

Il volume, autobiografico nelle intenzioni e per lunghi tratti, stando alle dichiarazioni dell’autrice, è il quarto dei romanzi della Dwyer Hickey dedicati alla propria famiglia, soprattutto per quanto riguarda il ramo paterno; famiglia raccontata così nelle quattro sezioni narrative complessivamente dagli anni ’10 del secolo scorso fino ad arrivare agli anni ’60 e ’70.

Il palcoscenico è un poco simile a quella Irlanda di Roddy Doyle, quella Dublino che abbiamo amato dei The Commitments e di The Snapper: famiglie numerose, religione cattolica, solidarietà, tanta beata confusione in case che traboccano di figli, promiscuità, persone decise a mantenersi “tradizionalmente” irlandesi, teste dure, ruoli tra uomo e donna che cominciano a mutare. Solo che qui, con Tatty, siamo giusto qualche anno prima.

Incontriamo Tatty (Caroline) nel 1964, quando ha solo quattro anni e la seguiremo fino ai quattordici.

La storia è quella di un non difforme, inevitabile disastro familiare visto però dagli occhi di una “strana” bambina, e narrato dalla sua voce: la dissipazione di un rapporto di coppia e poi il divorzio causato anche dalla dipendenza dall’alcool di entrambi i genitori. Il tutto disseminato in tranche tra le piccole cose quotidiane che improvvisamente poi divengono le grandi cose della vita. E questo mentre l’Irlanda povera e orgogliosa degli anni ’60 sta cambiando pelle, così come intorno le muta tutto il mondo.

“1969: La mamma dice che tutti bisticciano, non solo lei e papà. Dice che è il segno che ami qualcuno, perché non ti prenderesti il disturbo di litigare con qualcuno di cui non ti importa – o no? No mamma. Non c’è niente da vergognarsi sai”.

Nel dramma familiare che straripa sempre più, inevitabilmente e senza alcun rimedio, Tatty non perde l’innata capacità di affidarsi alla propria fantasia ed ad un deflagrante senso dell’umorismo che riporta un poco di “normalità” nel suo animo. Un umorismo “disperato”, fatto di qualche bugia, di qualsiasi cosa si possa inventare a far da schermo alla realtà. O renderla comprensibile.

Rendere comprensibile anche l’assurdo mondo degli adulti; il loro linguaggio ed i loro comportamenti frutto di codici, artefatto. Addolcendo così un poco la vita a partire dalle visuali oblique del suo punto di vista, ad occhi semi aperti, in cerca d’altro che non sia quello che ha concretamente davanti: “Allora non lo so, perché potrei non sentirli comunque. Potrei non sentirli se gridano e si chiamano per nome. Potrei non saperlo se la mamma grida e papà sbatte le porte. E se la mamma piange da sola in soggiorno? Potrei non saperlo. È così che va…?

Tatty racconta del diletto, buono a nulla, ubriacone papà, ad ogni modo, e nonostante tutto, perno della storia e della vita della bambina ma parla, ovvio, anche della angosciata, bella, mamma, come del parentado e dei suoi quattro fratelli, tra i quali Deirdre, dall’incantevole visino, coi suoi tanti problemi: “la bambina speciale che Dio ci ha mandato … Ci ha scelti tra centinaia di famiglie, e ci ha messo una vita a decidersi perché Dio è molto schizzinoso quando si tratta di affidare i suoi bambini speciali“.

Il resto della famiglia?: “Deirdre è la più grande. Ha un anno più di Jeannie, tre anni più di Tatty, quattro anni e mezzo più di Brian e sette interi anni più di Lukey. Ma anche se è la più grande, non potrà mai essere responsabile, perché non capisce”.

Ma quanto ci si può tenere al riparo dalla realtà? “Io vivere vorrei addormentato entro il dolce rumore della vita”, scriveva Sandro Penna.

È facile ritrovare parti, aumentate, diminuite, slittate della propria vita in questi ineluttabili incroci, amori e conflitti familiari descritti dalla scrittrice: immedesimazione che certo è anche chiave del successo di Tatty. Brani semplici quanto avvolgenti, delicati e struggenti: “Perché mangi queste Silvermint che pizzicano, papà? Perché cancellano l’odore di birra. Perché vuoi cancellare l’odore della birra? Perché ai poliziotti non piace. Papà ha indicato la luna piena. Guarda, ha detto, vedi?”.

Oppure: “Poi pensa alla mamma. La mamma. Addormentata nel suo appartamento fai-da-te, le bottiglie vuote sotto il letto. Due grosse, due medie, le piccoline. Una famiglia di bottiglie nascoste sotto il letto. Le cose che Jeannie le ha fatto dire in quell’orribile voce da ubriaca, che ha smesso di essere divertente nel momento in cui Jeannie si è addormentata”.

Tatty, se si vuole, è un bel viaggio dentro noi stessi, alla ricerca di quella vita “improvvisata”, “trovata”, “sorprendente” che non c’è più – ce la siamo lasciati alle spalle – ma che abbiamo di sicuro vissuto e che ci ha illuminato il cammino nel crescere e divenire adulti.

Adulti e magari talvolta anche un poco ridicoli, come tutti quelli che hanno dimenticato la leggerezza e la fragilità della vita. La capacità di osservarla con una lente deformante che ne risolva il puzzle, e che a suo modo renda il dono miracoloso della vista: “1964. La mamma dice che il bambino non ci vede bene, non ancora. Non riesce nemmeno a vedere le sue mani o i suoi piedi. Vedi, c’è questo velo davanti ai suoi occhi che rende tutto sfuocato, così riesce a vedere le nostre sagome che gli giriamo attorno e può sentire le nostre voci che vengono fuori dalle sagome, ma non sa veramente chi siamo, non ancora. La mamma dice che giorno per giorno si formano dei piccoli buchi in quel velo e che, poco a poco, i buchi diventeranno più grossi, finché non ci sarà più nessun velo”.

Tatty è un velo squarciato: la verità, ben oltre la realtà.