Quei mesi quando non siamo stati da nessuna parte. Ripensando Perec ai tempi del lockdown

Tenersi lontano da ogni progetto e da ogni smania; essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione. È la sfida del protagonista di “Un uomo che dorme”, il libro e poi il film del grande scrittore francese, Georges Perec (regia di Bernard Queysanne) in cui si potrebbe riconoscere come nei mesi nei quali non siamo stati da nessuna parte, sia apparso quell’oscuro desiderio di ritirarsi dal mondo senza scomparire del tutto, tentando la strada dell’indifferenza. Da (ri)vedere e (ri)leggere …

 

 

Nei mesi scorsi, a causa della segregazione forzata che siamo stati costretti a vivere, chi più chi meno ha dovuto misurarsi con un’esperienza inattesa e della quale quasi nessuno ne aveva mai praticato le dinamiche e il bisogno di inventare una nuova quotidianità.

Un periodo ben strano, per molti aspetti surreale, ma soprattutto degno di essere osservato come un laboratorio utile per la più varia moltitudine di discipline che mai e poi mai si sarebbe potuto organizzare in forma così estesa.

È stato un po’ come trovarsi ad un tratto nei panni del Gregor Samsa, protagonista della metamorfosi kafkiana, nel tentativo di regolare la propria vita ad una nuova particolarissima condizione mai esperita in precedenza.

Quei mesi hanno fornito l’occasione, per chi l’ha voluta cogliere, di ripensarsi e di ripensare al fardello di usi e costumi acriticamente assunti o al valore di quelle che si sono automaticamente considerate priorità.

Eppure questo periodo risultava perfetto per esperire o sperimentare nuove pratiche di un “io” singolo come di un “io” collettivo: “De-pensarsi, de-respirare, finché non vi sia più nulla di sé e tutto si perda nel vento e nel sole, nulla, tranne un piccolo punto di dolore” come dice Peter Handke ne Il Peso del mondo (1977).

In quei giorni un libro, e il film che ne è stato tratto, poteva rappresentare un ulteriore e calzante argomento in direzione di un opportuno de-pensamento di sé. Ecco che Un homme qui dort di Georges Perec (uscito in Francia nel 1967 e pubblicato in Italia da Guanda nel 1980, poi nel 2009 da Quodlibet) può assumersi come una sorta di calzante stimolo al riguardo o come spunto di autocoscienza.

La complessa struttura del testo letterario e la “lettura in forma cinematografica”, definizione fortemente voluta dagli autori a testimonianza dello strettissimo rapporto con il testo che ne hanno tratto, lo stesso Georges Perec e Bernard Queysanne si snoda facendo procedere due linguaggi paralleli in rapporto dialettico: da una parte la voce fuori campo prestata da Ludmila Mikael e dall’altra il soggetto seguito nello scorrere filmico e quello temporale, nei suoi gesti e nelle sue consuetudini.

La voce fuoricampo e le immagini, però, non si incontrano mai, pur muovendosi nella stessa storia. Quasi un fuori sincrono che sospende metafisicamente il tempo e le azioni. La voce fuori campo parla costantemente al giovane rivolgendosi a lui col “Tu”. L’artificio della voce che parla e descrive a lui stesso le azioni che sta compiendo, i pensieri che sta pensando e le sensazioni che sta provando deve essere inteso come un pretesto, dove il Tu è in realtà un Io, anzi, un super Io nell’accezione freudiana. La voce narrante come flusso di coscienza proprio dell’unico personaggio seguito. Come a dire che il protagonista vede le proprie azioni, o inazioni, e pensa sé stesso pensante attraverso la voce fuori campo.

La trama, forse meglio dire la non-trama (e come potrebbe essere diverso trattandosi di Perec), segue i movimenti e i pensieri di uno studente di sociologia (Jacques Spiesser), un giovane qualsiasi, che una mattina, dopo aver spento la sveglia, dopo aver svolto le sue “mansioni” mattutine e quotidiane, decide di essere il suo “inevitabile rovescio”. Ed ecco che, da quel momento, l’io pieno, geloso e presente nel mondo diventa un “Tu”.

È il racconto della vita ordinaria del protagonista, di quel “Tu” che giorno dopo giorno si educa all’indifferenza per tutto: a non voler più niente, vagare, dormire, perdere tempo; tenersi lontano da ogni progetto e da ogni smania; essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione; leggere Le Monde dall’inizio alla fine, senza saltare una riga, annunci matrimoniali e necrologi compresi.

Un uomo che dorme rappresenta una sfida. Chiunque, potrebbe riconoscere come proprio, nei mesi nei quali non siamo stati da nessuna parte, quell’oscuro desiderio di ritirarsi dal mondo senza scomparire del tutto, diventare indifferente a ogni cosa, un fantasma trasparente come il protagonista che vaga per Parigi senza aprire bocca, senza desiderare nulla, tra la folla dei Grands Boulevards, per i caffè, le panchine dei giardinetti, i lungosenna, i musei, i monumenti, come un sonnambulo flaneur.

Un simile atto radicale di rifiuto induce il giovane protagonista a tendere ad una identificazione con gli oggetti inanimati. Traguardo che segnerà la conquista dell’indifferenza. Come in Tentativo di esaurire un luogo parigino, altra opera di Perec, si snoda l’elencazione che da lontano nomina il catalogo del mondo: c’è la bacinella rosa con i calzini neri, le crepe nello specchio, le auto fuori, i passi, il rumore nei bar, la città. E ancora: il cinema notturno, il ticchettio della sveglia, di nuovo le crepe, il buio, la veglia, l’abisso, il gioco a carte, l’ansia, le dita consumate, la panca bianca, il libro da poggiare a lato, la sigaretta nel portacenere e il fumo che sale verticale.

La voce fuoricampo incalza e dilata lo sguardo di un uomo che sceglie di non muoversi, di non attendere più nulla: “La sveglia suona. Non ti muovi assolutamente. Resti a letto. Richiudi gli occhi. Non è un gesto premeditato, non è nemmeno un gesto, d’altronde. Ma un’assenza di gesto. Un gesto che non fai, dei gesti che eviti di fare. (…) Non ti muovi; non ti muoverai. Un altro, un sosia, un doppio fantomatico e meticoloso, forse fa al posto tuo, uno ad uno, i gesti che non fai più: si alza, si lava, si rade, si veste, esce.”

Quello che spinge “Tu” non appartiene ad una ricerca per scoprirsi e trovarsi ma l’esatto contrario: il protagonista non vuole scoprire la sua identità, né conoscere il mondo, né sapere di sé attraverso altri occhi. Tu sceglie di allontanarsi da ciò di cui non ha bisogno lasciandosi cullare dallo scorrere della vita, galleggiando come in un grande mare di indifferenza. Il suo scopo è una vita nella neutralità. La vocazione alla trasparenza, non alla sparizione. Non voler più niente. Aspettare finché non ci sia più nulla da aspettare. Vagare, dormire. Lasciarsi portare dalla folla, dalle vie. Seguire i canaletti di scolo (caniveaux), le inferriate, l’acqua lungo le sponde. Camminare lungo il fiume, rasente ai muri. Perdere tempo. Tenersi lontano da ogni progetto, da ogni smania. Essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione. Ma…

Ma anche in questa precisa e rivendicata scelta la realtà dalla quale vorrebbe tanto tenersi distante gioca un impercettibile ma definitivo tiro mancino inceppando un meccanismo che si credeva perfetto.

All’improvviso si avvede di una crepa che era stata sempre lì. L’identico e il consueto si ripetono ovunque, dimostrando che astenersi dalla realtà è impossibile. L’identico e il consueto, così fortemente respinti in precedenza, costringono ad una resa e, anzi, si impongono come condizioni necessarie: “Come se sotto la tua storia tranquilla e rassicurante di bambino perbene, di bravo allievo, sotto questi segni evidenti, troppo evidenti, della crescita – le righe tracciate con la matita sulla cornice della porta delle toilette, i diplomi, i pantaloni lunghi, le prime sigarette, il bruciore della rasatura, l’alcool, la chiave sotto lo stuoino per le uscite del sabato sera, la perdita della verginità, il battesimo dell’aria, il battesimo del fuoco – scorresse da sempre un altro filo, sempre presente, sempre tenuto lontano, che adesso tesse la tela familiare della tua vita ritrovata, la scena vuota della tua vita disertata, immagini in filigrana di questa verità disvelata, di questa abdicazione sospesa così a lungo, di questo invito alla calma, immagini inerti e sfocate, fotografie sovraesposte, quasi bianche, quasi morte, quasi già fossili: una strada di provincia, imposte chiuse, ombre opache”.
E così quel “Tu” percepisce l’impossibilità di abdicazione, di diserzione dalla vita.

Ci sono momenti nei quali, presi dal filo della “lettura” (reale o cinematografica che sia) e dallo spaesamento che provoca, il protagonista può ricordarci un Antoine Doinel portato alle estreme conseguenze di un tormento soffocato, del resto il testo è contemporaneo agli anni della Nouvelle vague. Ma senza voler cercare corrispondenze sicuramente forzate basta assumere che in questa opera c’è tutto Perec, quanto scritto in precedenza e quanto svilupperà successivamente. Di Tentativo di esaurire un luogo parigino si è già detto, ma anche dell’analogo “catalogo del mondo” in Mi ricordo o la descrizione, a partire dalla propria camera da letto per arrivare all’universo codificata in Specie di spazi, per non dire del capolavoro, La vita istruzioni per l’uso.

Nota: la “lettura in forma cinematografica” de L’uomo che dorme è uscito sugli schermi francesi nel 1974 ed ha ricevuto, nello stesso anno, il premio Jean Vigo.

La “lettura cinematografica” in versione originale è visibile qui