Ritorno all’Overlook Hotel. “Shining” 40 anni dopo, terrorizza ancora

A 40 anni dalla sua uscita in Italia (era il 22 dicembre 1980) arriva su Infinity nella versione Extended  (con 24 minuti inediti)  “Shining” di Stanley Kubrik, capolavoro del brivido. Nei panni dell’indimenticabile scrittore-guardiano dell’Overlook Hotel, un folle e insuperabile Jack Nicholson. I labirinti della mente e quelli reali, nelle sperdute montagne del Colorado, dove si svolge la sadica caccia di Jack Torrance. Da non perdere…

Uno scrittore irrealizzato con problemi d’alcool, una madre premurosa e tenace, un bambino sensibile e con percezioni extrasensoriali; sono Jack Torrance (Jack Nicholson), sua moglie Wendy (Shelley Duvall) e il piccolo Danny, tra i personaggi più noti dell’intera storia del cinema. Eccoli: sbandati nel “loro” albergo spettrale, che va alla deriva come una nave senza equipaggio.

Finalmente si può tornare a cogliere l’occasione per “partecipare” (proprio così) a Shining, capolavoro horror (così lo classifichiamo, frettolosamente) del maestro Stanley Kubrik; una delle sue “perle”, un gioco di ruolo costruito con sapienza e minuzia che ci abbranca fin nel profondo dalle prime scene alla conclusione, muovendo “corde” empatiche, comuni a noi ed ai protagonisti.

Shining (“The Shining”) il film del 1980 diretto da Kubrick, torna per un giorno – mercoledì 12 giugno all’Adriano di Roma (ore 22.15) per la rassegna “Le vie del cinema da Cannes a Roma” – a distanza di 20 anni dalla scomparsa del regista e a 40 dalla sua uscita in sala. Un paio di stagioni fa anche Nexo Digital l’aveva riportato in sala per celebrare, invece, i 40 anni dalla pubblicazione del romanzo omonimo di Stephen King su cui è basato (romanzo uscito nel 1977); quello stesso King che pur riconoscendone la qualità, ha preso più volte le distanze dal film.

L’Overlook Hotel, nel Colorado, enorme, di lusso, nel nulla di infinite foreste, costruito su un terreno che ospitava un cimitero di nativi americani, resta isolato nelle nevi dal mondo per 5 mesi, da ottobre a maggio. E lo aspetta.

Jack Torrance ne sarà dunque il custode invernale. La sua piccola famiglia sarà lì con lui. La prospettiva lo intriga; e i suoi occhi si accendono di lampi già luciferini. Infatti, così replica deciso ai dubbi di chi gli fa il colloquio per l’assunzione: “Be’, se può farle piacere è quello che stavo cercando: un po’ di isolamento. Perché sono lì lì per partorire un romanzo e quindi cinque mesi di pace sono proprio quello che ci vuole”; e l’intervistatore, più rilassato ma comunque perplesso, di rimando: “Sono contento, Jack. Mi preoccupavo perché per molte persone l’isolamento e la solitudine, a volte, possono rappresentare un problema”. Sembra questa la battuta d’uno che voglia proprio declinare ogni responsabilità. A Jack quindi infine non viene soprattutto nascosto nemmeno che in passato l’hotel è stato teatro di una orrenda strage familiare provocata giusto dal custode invernale di turno.

Tantissime le persone che sono state in quell’hotel, prima di Jack. Arrivi e partenze. E imprevedibili “ritorni”. Vite che si allacciano ad altre, in nuove dimensioni temporali. Shining è un film su queste “compresenze”: il vecchio custode, Delbert Grady autore della strage, un barista inappuntabile (Jack: “Lloyd. L’ho sempre detto io. Sei il miglior barman del mondo”), due gemelline morte con violenza, i segreti e le inquietanti apparizioni della stanza 237.

Le evanescenti entità, gli “ospiti”, non tardano a manifestarsi, soprattutto al piccolo Danny, che con la sua “luccicanza” (the shining), ed un amico immaginario, Tony, illumina il torbido e prevede pericoli. Ci sono persone e cose che lasciano tracce, tracce che solo chi ha il dono della luccicanza può vedere. Un dono che Danny ha e che viene subito riconosciuto dal cuoco dell’albergo Dick Hallorann, di comune sensibilità, in procinto anch’egli di fare le valigie come tutto il personale.

A ben guardare, ognuno dei tre (Jack, Wendy e Danny) sembra avere di casa i propri fantasmi in quell’albergo. Quel poco di realtà che resta, dissimulata nell’immenso scatolone della ricettività di massa, dove la nostra famigliola comincia a vivere, insensatamente circondata dai lussi di un albergo di lusso, con beni di consumo a non finire (bastanti per i 5 mesi), è davvero poca cosa. C’è soprattutto tanto spazio per quello che sembra solo fantasia, o incubo.

In quel vuoto, Jack sceglie addirittura d’isolarsi anche dalla famiglia; esclude gli altri. Lui ha finalmente trovato una sua personalissima, confortevole “casa”. “Un uomo solo è sempre in cattiva compagnia” diceva Paul Valery, ma Jack deve necessariamente esplorare se stesso, non importa dove lo condurrà il viaggio. Persevera: non ha altre qualità. E non ha scelta: è il suo destino e la sua maledizione. Non vuole perdere tempo. Quella è la sua strada e quello è il suo posto. Un posto poi in cui, forse, è sempre stato. Dove comunque vuole rimanere, e dove rimarrà. Ha un compito da eseguire. Ci cade dentro, come in un gorgo…

Per qualche scrittore il mondo è la folla ( “…svagato ma complice davanti al tumultuoso mare di teste umane che mi colma di un’emozione deliziosa e nuova… mi abbandono alla contemplazione dello spettacolo esterno della folla”. Vincenzo Cerami) per tanti altri la folla è quel caos che si può avere dentro; Stephen King deve saperne qualcosa. E Jack Torrance deve avere qualcosa di autobiografico.

Finalmente, del tutto solo, Jack è davanti a dei fogli che, in un momento tragico ed assoluto, di terrore puro, scopriremo riempie soltanto e sempre di una sola, insignificante frase (il mattino ha l’oro in bocca). Come si esce da questa follia?

Compresenze, dunque, ma Shining è soprattutto un film sullo spazio e sulla claustrofobia: posti chiusi in cui vivono fantasmi. Ce lo ricordano il groviglio interno che ha Jack, il grande labirinto di siepi davanti all’hotel, ed il suo calco, ossia il disegno infinito dei tanti corridoi, tutti uguali, che Danny percorre da solo con la sua arrancante biciclettina (inseguito dallo strepitoso steadicam di Garrett Brown, suo inventore, alle prime apparizioni). Questo piccolo universo chiuso con, per paradosso, decine di chilometri di neve e boschi liberi intorno.

L’albergo, d’inverno, quando è privo di clinti, è decisamente abitato dal Male. Manca l’aria, ma da lì non si esce. O si esce solo a certe condizioni. Solo dopo aver affrontato le prove di purificazione per riconquistare la propria libertà. Manca il fiato, ma tornare a respirare a pieni polmoni quell’aria fredda dei boschi del Colorado costerà fatica e terrore.

Jack prosegue risoluto sulla via della follia con l’intento di ripetere la strage compiuta dal suo predecessore. È il suo compito. Darà la caccia a Wendy e Danny, con una cattiveria ed una paranoia “assolute” che solo un grande come Jack Nicholson poteva darci.

I labirinti della mente e quelli reali. Un luogo pieno di comfort, ma sinistro, demoniaco. La quiete dei boschi ed il caos delle teste. Una “casalinga” caccia sadica. Ed una vittoria, ancora una volta solo temporanea, del Bene sul Male. La ricetta di Kubrick è antica quanto il mondo, ma proprio per questo efficace ed irresistibile ancora oggi. L’inquietudine domina i nostri giorni e si condensa in paure…