Se il dubbio etico diventa ottico. Il cinema della post verità nel doc (esperimento) israeliano

Passato alla Berlinale, “The Viewing Booth”, spiazzante documentario del regista israeliano Ra’anan Alexandrowicz. Una ragazza dichiaratamente filoisraeliana è ripresa mentre guarda filmati di cronaca sul conflitto israelo-palestinese. Un esperimento sulla manipolazione insita nelle immagini, sul legame tra ciò che vediamo e la nostra forma mentale. Perché il “davanti agli occhi” non esiste più, nell’epoca delle fake views: non basta l’evidenza del guardare per modellare le nostre convinzioni. Il dubbio etico diventa ottico, in un dispositivo tanto pirandelliano quanto politico…

The Viewing Booth è la cabina di proiezione. Quella in cui il regista israeliano Ra’anan Alexandrowicz colloca il meccanismo spiazzante del suo film, presentato alla Berlinale nella sezione Forum. Nella cabina viene invitata una ragazza, Maia Levy, studentessa americana apertamente schierata: parteggia per Israele nella disputa secolare con la Palestina. La giovane filoisraeliana entra in sala: a lei vengono mostrati quaranta video su YouTube, caricati online da associazioni per i diritti umani, a difesa dei palestinesi e anche da fondi dell’esercito israeliano. Attraverso la visione è chiamata a riflettere sulla questione.

Ma la prima immagine di The Viewing Booth è l’inquadratura di un obiettivo in primo piano, che si apre come un occhio. Identico sarà il finale circolare. Alexandrowicz esegue subito una dichiarazione d’intenti: qui si sta parlando del guardare, della visione e dei suoi effetti oggi, al tempo della post-verità e delle fake news, delle visioni costruite ad arte, sempre parziali e mai definitive. Non a caso le prime parole sono una citazione di Virginia Woolf, a proposito della Guerra civile spagnola, uno dei primi conflitti che fu fotografato: un invito a guardare le stesse fotografie e verificare se proviamo tutti le stesse emozioni. Lo stesso vale per le immagini.

Così vediamo Maia guardare. La ragazza può spingere play, bloccare i video, rivederli, fermarsi per esprimere sensazioni. Davanti ai suoi occhi, e quindi ai nostri, si materializza un presunto terrorista bloccato a terra dai militari israeliani, poi minori palestinesi che vengono maltrattati dai soldati. Maia dice che è un video di propaganda, che non racconta tutta la storia ma un frammento parziale. Quando una donna in video espone una situazione di abuso contro i palestinesi, la spettatrice sostiene che sicuramente sta mentendo.

Nell’esperimento del regista sette studenti sono stati chiamati ad assistere ai filmati, ma li vediamo solo per cenni, in The Viewing Booth al centro c’è Maia perché si è rivelata la figura più interessante e sintomatica. A colpire la giovane è soprattutto una perquisizione di militari israeliani in una casa palestinese, in piena notte, con un bambino piccolo che viene svegliato brutalmente e inizia a piangere. “It’s weird”, commenta, non c’è apparente motivo.

Vediamo cambiare la sua espressione prima monolitica: “I’m a little bit confused”. Non sono però video a senso unico: ecco dei giovani arabi che scatenano una sassaiola contro abitazioni israeliane, a mostrare il congegno dell’odio ormai innescato, che si avvita su se stesso. Malgrado alcuni dubbi Maia però non crede ai filmati, molti li definisce preparati, frutto di una messa in scena. “Queste immagini non cambieranno la mia visione del mondo”, sentenzia infine.

Nella seconda parte il film opera una virata imprevista. Qualche mese dopo la ragazza viene riconvocata nella cabina di proiezione ed è chiamata, stavolta, a guardare un video di se stessa che guarda i video: il regista crea un trompe-l’oeil dall’esito dislocante. E le opinioni della ragazza non sono uguali alla prima volta…

The Viewing Booth nell’arco di settanta minuti disegna una parabola sulla manipolazione insita nelle immagini, e quindi sulle visioni dell’oggi, ma soprattutto sul legame tra ciò che vediamo e la nostra forma mentale. Perché il “davanti agli occhi” non esiste più, nell’epoca delle fake views: non basta l’evidenza del guardare per modellare le nostre convinzioni. Il dubbio etico diventa ottico, in un dispositivo tanto pirandelliano quanto politico.