Spavaldamente Brad Pitt. L’omaggio di Tarantino a Redford, tra la via Emilia e Hollywood
Era il 1970 quando Robert Redford vestiva i panni dello “Spavaldo”, il motociclista pieno di donne, fanfarone e cinico del film di Sidney J. Furie. Certo non una pietra miliare come lo sarebbe stata “Easy Rider”, eppure conteneva già tutto il necessario per l’immaginario degli aspiranti ragazzi ribelli di allora. Tanto che Tantino gli ha reso omaggio in “C’era una volta a … Hollywood” con Brand Pitt identico allo “spavaldo” originale. Di seguito una bella rievocazione del “vuoto mito americano di terza mano” vissuto all’epoca nella grassa provincia emiliana …

Premessa autobiografica: essendo nato alla fine degli anni ’50, il ’68 l’ho visto solo in tv ma avevo l’età giusta perché il decennio successivo diventasse la mia variopinta, sgangherata e spesso contraddittoria scuola di formazione.
Nascere nella grassa provincia emiliana, per giunta, è aggravante di non poco conto.
Erano anni veloci, si cresceva in fretta, anzi lo si desiderava ardentemente. La palestra familiare spingeva ad una maturazione accelerata volendoti “ometto” fin dalla più tenera infanzia e se poi ovunque “i giovani” facevano sconquassi, si divertivano, rivendicavano un riconoscimento di identità, tu stesso non vedevi l’ora di crescere per fare quello che facevano i fratelli maggiori.
In tutto questo il cinema, vero e proprio bildungsroman, era lì a caricarti come una molla con storie che confermavano i desideri o te ne scodellavano di nuovi. Erano magari b-movies o quelli che venivano da una cinematografia che oggi si definisce indipendente e comunque film per lo più dimenticati o totalmente sottovalutati ora come allora.
Solo pochissimi anni prima, favorito dal buio in sala, ero stato il cavaliere solitario con la Colt, ma causa aumento del testosterone e delle vicende epocali, mie e del mondo, ero diventato il ribelle maledetto e tormentato, orgogliosamente outsider, e poco importava se sullo schermo il tuo eroe se ne andava verso il tramonto cavalcando la sua Harley mentre io salivo sulla Vespa 50 (truccata ad aumentarne la cilindrata a 90 cc., illegalissima) perché, tanto, correva la fantasia verso la prateria fra la via Emilia e il West, sciocca adolescenza falsa e stupida innocenza, continenza, vuoto mito americano di terza mano, cantava Guccini.
Però, all’epoca, il mito non lo sentivamo così vuoto, era la piccola città ad essere, dati alla mano, un bastardo posto ed era sufficiente per sentirmi nel giusto.
Il pippone autobiografico per introdurre un film visto una domenica pomeriggio nell’estate del 1971 nella vecchia sala semideserta del cinema Italia, oggi chiuso, ça va sans dire.
Non si leggevano recensioni, bastava il manifesto fuori dal cinema, e il cast, e sul manifesto c’era una dirt bike Yamaha, c’era Robert Redford in posa da bullo con una bombetta in testa e il torso nudo, lo avevamo già visto e promosso in Butch Cassidy, e poi c’era un buffo piccoletto dalla faccia da cartone animato. Bastava e avanzava per invogliare ad entrare.
Allo spegnersi delle luci in sala iniziò subito un lunghissimo piano sequenza con la macchina da presa puntata chissà dove sull’assolato paesaggio desertico, forse California o Arizona, e seguendo una nuvola di polvere in avvicinamento sollevata da moto da fuori strada, immediatamente riconosciute in quanto amore infinito e sempiterno, mio e dei miei compari. Rombo di motori a quattro tempi su strade o piste sterrate, la musica più bella mai eseguita.
Il film, che conteneva tutti gli ingredienti immaginifici e formativi fino ad allora assunti in modo sparso, era Lo spavaldo, Little Fauss and Big Halsy: uscito nel 1970 (urca! fa 50 anni tondi!), regia di Sidney J. Furie, con Robert Redford, Michael J. Pollard e Lauren Hutton (una delle gap-toothed women più belle di sempre), per non dire della colonna sonora di quell’altro irregolare che era il “man in black”, Johnny Cash.
Little Fauss (Pollard), lavora come meccanico nell’officina paterna, ma la sua aspirazione è diventare pilota automobilistico. Quando incontra Big Halsey (Redford), un giovane estremamente sicuro di sé, guascone, spericolato fascinoso con le moto e con le donne, che gira da un capo all’altro degli Stati Uniti per partecipare a gare motociclistiche.
Little accetta di seguirlo come meccanico nelle sue peregrinazioni, mettendogli a disposizione persino la propria moto. Ben presto però, Fauss si accorge che Big Halsey è diverso dall’immagine che se ne era fatta e che tanto lo aveva affascinato. Halsey è fanfarone, disgustosamente cinico con le donne e anche in corsa si fa notare più per le gravi scorrettezze che per l’effettivo valore.
Affrancatosi dalla sudditanza ad Halsey, Fauss decide di intraprendere anch’egli la carriera di motociclista. Qualche tempo dopo i due si rincontrano nel Gran Premio della California: alla vittoria di Fauss, ormai un vero campione, corrisponde la mesta sconfitta sportiva ed umana di Halsey, che viene abbandonato anche da Rita Nebraska (Hutton), la donna che gli ha dato una figlia.
Da segnalare due curiosità: è il primo e unico film, che mi risulti, nel quale Redford interpreta un personaggio negativo e inoltre è uno dei primi confezionati da una major, la Paramount, facendo il verso ai temi e alle tecniche del cinema indipendente del periodo, tralasciando però argomenti troppo “impegnati”. Per raggiungere lo scopo la Paramount chiama a scrivere la sceneggiatura Charles Eastman che veniva dalla Corman Factory e la cui sorella, Carol, ancora più coinvolta nel giro di Corman, era stata la sceneggiatrice di quel capolavoro che è La sparatoria, per la regia di Monte Hellman.
Lo spavaldo non è di certo una pietra miliare, come lo è stata Easy Rider, uscito l’anno prima, ma per noi ruspanti e un po’ grezzi aspiranti ribelli conteneva già tutto il necessario.
Fast forward ai giorni nostri: sono ancora in sala, stavolta per vedere C’era una volta a…Hollywood di Quentin Tarantino. Dal primo momento in cui Brad Pitt compare sullo schermo è tutto un girarsi e rigirarsi sulla poltrona: ma dove l’ho già visto?
La t-shirt Champion promozionale della marca di candele per moto, i jeans (quei jeans: pantaloni, camicie e giubbotti), i mocassini indiani, le pose, le espressioni e le movenze… Quando poi si mette a torso nudo lasciando vedere la cicatrice che fa tanto incidente sul lavoro per lo stuntman, è tutto chiaro: Cliff Booth (Pitt) è una copia precisa e identica del Big Halsey dello Spavaldo!
Tipico di Tarantino rievocare un film minore di 50 anni fa e facile (facile?) per Pitt omaggiare Redford, visto che ne è il pupillo riconosciuto e col quale ha lavorato più di una volta.
Quello che Tarantino e Pitt non sapranno mai è che hanno fatto ripiombare in un periodo epico quel ragazzotto della bassa emiliana, orgogliosamente e programmaticamente loser, che si nutriva bulimicamente di antieroi americani (musica, fumetti, cinema, letteratura) e per il quale, probabilmente, cinquant’anni non hanno prodotto grandi mutamenti strutturali.
Nota a margine con risvolti psichiatrici: non sono sicuro ma giurerei che, nel film, Brad Pitt impugna la tazza da caffè come Redford. Solo io ho notato che in tutti i film Redford regge il mug infilando il mignolo e l’anulare? Se non ci credete andate a rivedervi, per esempio, I tre giorni del condor.
Gino Delledonne
Gino Delledonne
Architetto e docente universitario a contratto. Ha collaborato alle pagine culturali di vari giornali tra i quali "Diario" e "Archivio". Devoto del gruppo garage punk degli Oblivians.
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