Un padre e un figlio, a imparare il silenzio e la pazienza della montagna
In sala dal 3 novembre “La pelle dell’orso”, l’insolito esordio di Marco Segato tratto dall’omonimo libro di Matteo Righetto. Quasi un western alpino con Marco Paolini nei panni di un padre che “ritroverà” suo figlio grazie ad una caccia all’orso tra i boschi alpestri…
Dimenticate il Marco Paolini fluviale del Vajont, di Ustica o degli Album. Dimenticate il torrenziale flusso di parole con cui sa (magistralmente) raccontare storie complicate, dar voce a chi è normalmente espulso dalla storia, scuoterci dal torpore in-civile in cui siamo sprofondati.
Il Pietro de La pelle dell’orso, opera prima di Marco Segato tratto dal libro omonimo di Matteo Righetto (Guanda Editore) di cui Paolini è protagonista, co-sceneggiatore (con Enzo Monteleone e lo stesso Segato) e produttore (con la sua Jolefilm), è un uomo ferito, prosciugato nei sentimenti e nelle parole, testardamente silenzioso.
Come la vita sospesa e lenta dei villaggi di montagna dell’immediato dopoguerra in cui il film è ambientato, è aspro eppure solido, esemplare d’uomo al giorno d’oggi praticamente scomparso. Esattamente come l’orso di cui è antagonista, alter ego e maschera, sin dalle prime immagini del film.
L’orso è una bestia vecchia e feroce che ammazza le vacche nelle stalle e i paesani temono come fosse il “diàol”; Pietro uno spaccapietre a cui la guerra ha lasciato dentro un grumo nero: sua moglie è morta (e in paese credono che l’abbia uccisa lui), suo figlio Domenico quattordicenne e solo, quasi un estraneo, le sue giornate uno scorrere rancoroso tra la cava e l’osteria, dove beve e smadonna.
Rispetto al libro, l’identificazione di Pietro con l’orso è ancora più marcata: in sede di sceneggiatura i dialoghi si sono ulteriormente rarefatti, il film è stato ambientato nell’immediato dopoguerra invece che nel 1963, ma a far da lievito alla storia è arrivato un personaggio femminile, Sara, amica della moglie di Pietro, una fata rude che Lucia Mascino intepreta con coerente asciuttezza.
Anche Sara, come l’orso del demonio, la incontriamo nei boschi, dopo che Pietro, per ritrovare la dignità perduta, perché non ha più niente da perdere, o forse solo per orgoglio, ha lanciato al proprietario della cava una sfida: 600mila lire e andrà in montagna ad ammazzare il “diàol”.
Se ne parte all’alba, senza neanche salutare suo figlio, ma Domenico è testardo anche lui, e pur se non lo sa ancora, è assetato di avventura, di padre e di famiglia. Come nelle fiabe, sarà il bosco, saranno la montagna, le notti passate insieme nel tempo sospeso e rituale della caccia, e la quotidianità mista all’attesa a trasformare l’uno e l’altro.
Domenico troverà il coraggio di pronunciare le domande sepolte e scottanti sulla morte di sua madre, Pietro accetterà di abbattere le sue trincee, di mostrarsi semplicemente uomo, di indicare a suo figlio la strada stretta che porta al diventare adulti.
Nel triangolo tra Pietro, Domenico e l’orso, che li attira sul passo, li annusa, li beffa e infine li affronta, La pelle dell’orso, si può leggere come un “romanzo” di formazione a cui la trasposizione al cinema ha regalato tempi e topoi del western, aprendo forse la strada al sottogenere del western alpino.
Niente a che vedere con Revenant e neppure con Grizzly man, ma l’operazione è degna di attenzione: un film insolito e per certi versi ardito, che in alternativa al genere commedia dei soliti set romani e di molto Sud accalappiapubblico, propone una storia anche produttiva tutta made in Padova, a cominciare dall’autore del libro, per finire con la dedica del film alla memoria dell’amico e maestro Carlo Mazzacurati.
Il film è stato presentato a Montréal, in Sud Corea e all’ultimo festival di Annecy, dove ha messo nello zaino tre premi. In Italia è distribuito da Parthénos in trenta copie ed esce nelle sale il 3 novembre.
L’esordiente Segato ha girato tra le montagne della Val di Zoldo con lo sguardo del regista che finora ha realizzato soprattutto documentari: macchina a mano che sta addosso agli oggetti (una stufa, la vanga, gli steli del prato…) e scava nel volto degli attori come fossero tronchi, inquadrature strette che si aprono ai cieli grandi delle primavere dolomitiche, che si permeano degli odori del bosco bagnato o degli alpeggi fumosi: una regia sinestetica, fatta di atmosfere e dettagli. Una storia essenziale, che punta tutto sulla forza degli interpreti e delle immagini.
E se di Paolini riconosciamo l’ennesima prova d’attore, bisogna dire che il giovanissimo Leonardo Mason è sorprendentemente bravo, naturale, credibile.
A vedere questa storia che in fondo racconta il passaggio del testimone da una generazione all’altra, ci piacerebbe che andassero insieme molti padri con i loro figli, per scoprire una ruvidezza che oggi non è più di moda, e due qualità che la montagna esige, praticamente estinte: il silenzio e la pazienza.
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