Tra i ricordi in plastilina di Alain Ughetto. Quando gli italiani in Francia erano solo “Manodopera” a buon mercato
In sala dal 31 agosto (per Lucky Red) “Manodopera”, tenero e struggente viaggio nel mondo in plastilina di Alain Ughetto, regista francese di origini italiane. Un album di famiglia in cui ricostruisce l’”Italia degli ultimi”, costretti prima dalla miseria e poi dal fascismo a emigrare in Francia fra fine Ottocento e primi Novecento. Manodopera a basso costo quella italiana e vittima di un feroce razzismo. Tra le fonti del film “Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina” (Einaudi 1977) del sociologo italiano Nuto Revelli (1919 – 2004) e “Voyage en Ritalie” di Pierre Milza ...
Manodopera di Alain Ughetto si distingue per la tenerezza, la fantasia e la precisione con cui racconta l’”Italia degli ultimi”, costretti prima dalla miseria e poi dal fascismo a emigrare fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento: si parte da una terra in cui le nuvole sono fiocchi di cotone, le montagne carbone, gli alberi broccoli, i mattoni zollette di zucchero. Un luogo che pensiamo inaccessibile, eppure in cui basta un ricordo, un palpito, un oggetto riaffiorato per caso e tutto riprende vita, così com’era ai tempi.
Premiato come miglior Film di Animazione agli European Film Awards 2022 e Premio della Giuria al Festival International du Film d’Animation di Annecy 2022, Manodopera arriva nelle sale italiane il 31 agosto distribuito da Lucky Red. L’animazione in stop-motion si muove sulle musiche originali del Premio Oscar Nicola Piovani.
Combinando ancora una volta poesia e realismo, piccola e grande storia, in uno stile di animazione originale e personale, il regista – nato a Lione nel 1950 e autore nel 1985 di Boule che gli valse il Premio César e nel 2013 del documentario intimo e artistico Jasmine, presentato in concorso alla sedicesima edizione del Future Film Festival di Bologna – scrive, dirige e soprattutto plasma la plastilina, dando spessore e colore a ricordi ed emozioni, luoghi e avvenimenti. Ughetto ci propone anche – attraverso la memoria di fratelli e cugini e alcune fotografie – una storia d’amore e di piccole gioie quotidiane, il tutto narrato con uno sguardo divertito e una tenerezza infinita.
La borgata Ughettera non è un luogo immaginario, ma esiste davvero, è una frazione di Giaveno, a mille metri di altezza, poco distante da Torino e ai piedi del Monviso. «Mio padre raccontava sempre che in Piemonte – ricorda il regista – vi era un paese chiamato Ughettera in cui tutti gli abitanti si chiamavano Ughetto, come noi. Alla sua morte, una decina di anni fa, decisi di andare a visitare quel luogo, di cui oggi non resta nulla, ed ebbero inizio la mia ricerca e la storia del film».
Lì Ughetto ha inteso ricostruire le vicende che hanno visto come protagonisti i suoi antenati. Conferisce a una storia personale e familiare una dimensione universale, poiché i problemi vissuti dagli immigrati, qualunque sia il luogo di partenza o la loro destinazione, sono sempre gli stessi, legati dall’esclusività sociale nei luoghi di approdo.
Da Manodopera risulta, per mezzo di pupazzi in plastilina alti 23 centimetri – primo fra tutti la nonna Cesira – un’accattivante opera di testimonianza sulla migrazione italiana: l’autore ha avvertito la necessità di riavvolgere il filo della storia della sua famiglia di emigranti, in un susseguirsi di accadimenti che parte dagli ultimi anni dell’Ottocento.
Ha influenzato non poco Ughetto la lettura di Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina (Einaudi 1977) del sociologo italiano Nuto Revelli (1919 – 2004), sulla base delle testimonianze struggenti di quanti avevano vissuto a Ughettera, ha dato voce ai “vinti”, riportando all’attenzione un mondo dimenticato e abbandonato: “A partire da quei resoconti e mischiandoli con i ricordi dei miei parenti, ho cominciato a lavorare a un film che mostrasse come gli immigrati italiani hanno contribuito a rendere grande la Francia. Ma ho fatto sì che il film mettesse anche in evidenza come venivano accolti allora gli italiani e tutti gli stranieri in generale” spiega il regista.
Una storia di emigrazione e di emarginazione, di fame, miseria, lavoro estenuante, sofferenze e ingiustizie, segnata inoltre dalle guerre, dall’epidemia spagnola nonché dal fascismo e dalle altre tragedie del ‘900.
E dall’italofobia, come emerge dalla lettura, da parte della marionetta di nonna Cesira, di articoli di giornale e di documenti sull’ostilità anti-italiana, già riportati dallo storico, specialista dell’immigrazione italiana in Francia Pierre Milza (1932 – 2018) nel suo magistrale Voyage en Ritalie (non tradotto, 1993). Milza, lui stesso “rital” (da ressortissant italien, come appariva sui documenti) o “macaroni” – termine con il quale venivano chiamati in maniera spregiativa gli immigrati italiani -, rileva che “caratterizzano l’operaio italiano la sua flessibilità e malleabilità. Gli si fa fare qualsiasi cosa. Non ha dignità personale, sopporta tutto”.
Infatti “la Francia aveva bisogno di manodopera e gli italiani erano molto ricercati: spazzacamino, straccivendolo, calzolaio, tagliapietre… Erano bravi in tutto, abituati alla morsa del freddo, all’abbraccio gelido dei venti”. La necessità di sopravvivenza economica e un’esistenza di duro lavoro furono sugellati dall’ascesa del fascismo facendo degli Ughetto una famiglia francese: “Io sono piemontese, l’Italia è il paese di Mussolini, ma la Francia è la mia nutrice” fa dire Ughetto a nonno Luigi.
Attraverso un dialogo fittizio con le marionette, intraprendiamo così un viaggio a metà strada fra la realtà e la favola, alimentato da ricordi familiari e dall’immaginazione del cineasta, oltre che da rigorose ricerche documentali. Da Ughettera i nonni paterni, Luigi e Cesira, andarono via quando la miseria spingeva verso la Merica, «dove i soldi crescono sugli alberi», ma si fermarono in Provenza, appena al di là della montagna.
Lì nonno Luigi costruì strade, dighe, tunnel, subendo l’umiliazione di leggere sulla porta delle case il cartello «Vietato ai cani e agli italiani» – il titolo francese di Manodopera – che veniva affisso sulle porte di molti locali non solo francesi ma anche belgi o svizzeri: la violenza e la ferocia di quelle parole sono indicative – per Ughetto – di quanto i nostri emigranti hanno subito. E di quanto patiscono attualmente i nuovi migranti del mondo.
Manodopera si propone come atto d’amore verso chi ha trascorso un’esistenza di stenti, ha sofferto la fame, è partito soldato per la campagna di Libia e per la Prima Guerra Mondiale, vivendo nella Seconda l’amarezza di trovarsi bersagliato dalle bombe italiane. Per ogni situazione Alain ha una domanda, a cui nonna Cesira risponde con pazienza. E così il film diventa per il regista l’occasione di stringere un’ultima volta, materialmente o meno, la mano di sua nonna e quella di suo padre. Di plastilina o meno, non fa nulla, nel paese dalle nuvole di cotone.
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