Coltivare la vergogna. Conversazione con Ayat Najafi che porta Lisistrata a Teheran

“Seminarla, farla crescere, coltivare la vergogna è vitale”. Perché in fondo è un altro modo per dire indignazione, ossia la radice per cambiare le cose. Conversazione col regista iraniano Ayat Najafi protagonista, in apertura delle Giornate degli Autori veneziane, col suo “The Sun Will Raise” che porta Lisistrata nella Teheran delle manifestazioni contro il regime, delle torture e della repressione. Interrogandosi sul potere, quello dell’artista, della dittatura e quello che le donne cercano di rovesciare, nella commedia di Aristofane come nell’Iran di oggi …

«Una poesia persiana degli anni ‘60 dice: “Chi piange ha un solo dolore, chi ride ne ha migliaia”». Ayat Najafi è raggiante, si aggira per la Casa degli Autori al Lido di Venezia quasi ebbro di soddisfazione. Il suo The Sun Will Raise, rilettura contemporanea della commedia di Aristofane, Lisistrata ha aperto le Giornate degli Autori di Venezia 80, accolto da pareri positivi praticamente unanimi.

Gli confesso cercando di non imbarazzarlo che l’ultima volta che avevo visto qualcuno mettere in discussione così efficacemente il suo ruolo di regista all’interno della società era stato lo scorso anno, con Gli orsi non esistono, l’ultimo capolavoro di Jafar Panahi.

Non è mai facile andare da un regista e tirare in ballo uno dei maestri indiscussi del suo paese. Ma Najafi non si scompone. «Tutti abbiamo rubato da Panahi, è un’ispirazione costante e non solo dal punto di vista artistico. Può sembrare megalomane, ma quando sono arrivato in Iran per girare il film lo avevano appena arrestato e lo hanno rilasciato quando sono ripartito, mi è venuto istintivo pensare che avrei dovuto fare io quello che non poteva fare lui».

Non indietreggia nemmeno davanti al più grande dei nomi, che cita direttamente, introducendo uno degli aspetti più interessanti del suo film. «La scena finale viene chiaramente da Close-Up. Kiarostami per me è stata un’epifania e non ho resistito. Quella scena fa scomparire il regista, non esiste più, è un modo per rinunciare al potere che questa professione ti dà sugli altri».

Deformazione mentale, subito affiorano le parole di un poeta, italiano invece, contemporaneo al persiano che ha scelto di citare lui. “Digli pure che il potere io l’ho scagliato dalle mani”. Najafi non fa altro che questo durante tutto il film: sfuggire al potere, in ogni sua forma. Ma soprattutto, è chiaro, al potere dittatoriale che continua a vessare l’Iran.

A Teheran stanno scoppiando le rivolte, guidate dalle giovanissime donne stufe dell’oppressione del regime, di cui sono da sempre le prime vittime. Mahsa Amini è stata uccisa dal basij, ovunque ci sono scontri, sangue e torture. Il film sceglie di concentrarsi su una compagnia teatrale, che mentre tutto questo gli scoppia attorno sta lavorando alla rappresentazione di Lisistrata, la commedia di Aristofane in cui le donne cercano di rovesciare il potere maschile.

Gli attori ma soprattuto le attrici discutono insieme, dello spettacolo come del documentario che Najafi sta girando e prova a spiegargli. È fin troppo semplice tracciare il legame con Shadows di Cassavetes. «Quel cinema lì, gli anni ‘70 a New York, sono la culla di tutto», ammette lui candidamente.

Ovviamente non esistono volti nel film, per la stessa ragione per cui non ci sono nomi nei titoli di coda. È troppo alto il rischio di conseguenze gravi. Najafi è quindi costretto a dissezionare i corpi dei suoi interpreti. Ma lo fa, specie all’inizio, concentrandosi su una parte del corpo non convenzionale.

«I videoclip sono stati un’ispirazione fondamentale, soprattutto quello della canzone che abbiamo montato all’inizio. La scelta di inquadrare spesso i piedi è venuta da lì. Le attrici poi mi hanno confidato che il tipo di scarpa è spesso uno dei pochi oggetti che hanno per esprimere loro stesse. Mi piaceva che ci fosse la loro personalità in quello che mostravo».

Una risposta che tradisce un aspetto fondamentale, cioè l’idea che le rivoluzioni possono partire anche dalla semplicità, come può esserlo una canzone pop. Superficialmente possiamo dare per scontato che non esista che tristezza e contrizione negli oppressi. Le attrici invece decidono di dedicarsi a una commedia perché “una tragedia in tempi duri non funzionerebbe”. Raccontano le loro storie di tortura ridendoci su, in una dissonanza atroce. È qui che Najafi cita la poesia persiana. «Risata e dolore sono sempre stati vicini nella nostra cultura, è normale ridere nella tragedia. D’altronde però anche Čechov chiamava Il gabbiano una commedia».

C’è poi un altro tema che va affrontato. Najafi è un uomo di circa quarant’anni, sta raccontando le lotte di una generazione e di un genere che non sono i suoi. Da anni vive a Berlino, lontano dal dramma del suo paese. In tempi di discussione continua sulla legittimità della rappresentazione, The Sun Will Raise potrebbe addirittura essere tacciato di appropriazione. Non si può resistere alla domanda.

«Io so di essere un privilegiato: vengo da una famiglia borghese, sono un uomo, vivo all’estero. Ho detto a volte che mi vergogno di essere un uomo in Iran. Ma la questione è cosa vuoi farne del tuo privilegio. Io non ho mai accettato di rassegnarmi a questa gerarchia. Uno dei miei primi lavori era sulle giocatrici di calcio, donne che andavano a occupare uno spazio che in Iran era stato solo maschile. Quel corto mostrava una possibilità diversa, la mia voce di privilegiato è servita a chi non l’aveva».

Ecco, la vergogna. Il cuore reale di tutto il film, perché in fondo è un altro modo per dire indignazione, ossia la radice per cambiare le cose. Seminarla, farla crescere, è vitale. Se la si lascia indietro, crescono gli alibi e l’indifferenza. E ci si può ritrovare, quando il passato non sarà più in vista, a ricadere in orrori già compiuti. O forse a recuperare uno spettro della nostra epoca più tragica e nefasta per provare a dare lezioni di morale sul presente e sul futuro.