Grieco: “Il delitto di Pier Paolo? Più simbolico di quello Moro”

Intervista al giornalista e regista de “La macchinazione”: un film (in uscita nei prossimi mesi) e un libro in cui racconta dell'”omicidio di Stato” del grande intellettuale, della sua “solitudine” e di quegli anni democristiani…

Ranieri_Sardelli
Massimo Ranieri nei panni del poeta ne “La macchinazione” di David Grieco

Parto da una sua frase che ho letto:  “non tolleravo il fatto che la sentenza indicasse come responsabile un ragazzetto di un metro e mezzo” (Pino Pelosi ndr). Così spiega la sua spinta a girare il film La macchinazione da cui è nato anche il libro. Eppure in questo quarantennale ricco di “celebrazioni” si ha quasi la sensazione, anche a sinistra, di una sorta di insofferenza. Quasi a dire “basta con Pasolini, con il pasolinismo…”
“Credo ci sia  stata una “santificazione” eccessiva, rivelatrice del resto della coda di paglia della macchina del consenso. Nell’usare Pasolini, anche nelle scuole, si sono formalmente lavati la coscienza; pure  in televisione sono passati quasi tutti i suoi film, ma spesso tagliati… Eppure c’è stata sempre la volontà di non parlare della sua morte, di Pelosi e di come andava la vicenda giudiziaria. Tanti anche i libri che sono usciti, ma ben pochi quelli che hanno messo l’accento sulla sua morte, ad eccezione di PPP, Pasolini un segreto italiano di Carlo Lucarelli, oltre a La macchinazione che ho scritto di getto. Per fortuna nel 2010 c’è sta la riapertura del caso con nuove prove che dimostrano il coinvolgimento di più persone al momento del delitto”.

Si ha come la sensazione, e ancora una volta pure a sinistra, che non si facciano i conti con il contesto storico di quegli anni. Per cui la “macchinazione” o il “complotto” vengano rifiutati quasi per un riflesso condizionato. Non crede che questo fastidio sia una fuga da qualcosa che è certamente politica..?

“Quelli che si sono occupati dell’uccisione di  Pasolini l’hanno seppellito malamente. Paradossalmente e in buonafede i primi sono stati gli omosessuali: all’indomani della sua morte, il 2 novembre del 1975, l’allora segretario del Fuori disse di provare a interpretare politicamente  questa morte dicendo “è morto a causa dell’omofobia”. Poi tutti gli intellettuali hanno avallato  la stessa tesi, così come espressa dalla stampa. Gli intellettuali lo odiavano perché lui odiava loro, perché lui viveva una vita reale, stava tutti i giorni in una strada per niente letteraria, mentre loro no. C’ero… e si andava con lui nei salotti con Ettore Garofalo, i fratelli Citti, Ninetto Davoli, e si attraversavano queste case borghesi, da quella di Moravia a quella di Parise. Un modo provocatorio per far vedere la sua diversità. Io stesso ho sentito su di me le occhiate classiste e razziste. È chiaro che era “solo” e quando è morto era isolato. C’è chi questa storia la conosce benissimo e l’ha voluta coprire… Quello di Pasolini è stato un delitto di Stato come tutti quelli della strategia della tensione. Rileggendo non tanto le sue opere, né riguardando i suoi film ma i suoi articoli e  gli Scritti Corsari mi sono accorto che non c’è ragazzo di quella generazione che non li abbia letti… la chiave della morte sta lì. Nessuno ha mai gettato accuse e fatto accuse violente alla classe dirigente come le ha fatte Pasolini… Cercano da sempre di seppellire questa storia ma io ho speranza che si faccia luce”.

Non teme di esssere liquidato con sufficienza come il solito “complottista”?

“Credo che dopo 40 anni, finalmente, ci sia la possibilità di arrivare alla verità… Così che alcuni cominciano a dire che quella storia dell’idroscalo di Ostia fa acqua da tutte le parti e che le spiegazioni che ci hanno dato su questo delitto non stanno in piedi….Valter Siti, per esempio,  l’ha scritto “improvvisamente” su Repubblica a settembre scorso. Se si passa attraverso Pasolini si può mostrare quell’epoca e tutta la strategia della tensione.
Per me Pier Paolo è l’unico grimaldello perché è la vittima più simbolica di quegli anni, anche più di Moro. E pensare che allora io stesso, ogni tanto, polemizzavo con lui perché le sue visioni mi sembravano troppo apocalittiche. Quaranta anni fa non era così chiaro. Oggi si. Noi abbiamo un buco di 50 anni di storia, il buco della Democrazia Cristiana. Penso, e soprattutto per i giovani, che finalmente quel velo vada strappato…”

E il suo rapporto con lui?

“Semplice, frequentava casa mia, era un amico di famiglia. Così mi sono messo a fare l’attore senza esserne capace e per Teorema mi ha scritto una parte apposita. Eravamo a Milano e dopo i primi giorni  di riprese, gli dico “guarda  non voglio più fare l’attore, voglio fare altro, dai la mia parte a qualcuno”. Lui riflette e mi dice: “va bene,  però una scena dovresti ancora farla”. Così gli feci da assistente per Teorema. Poi per Medea mi affidò Maria Callas, dicendomi “questo è un lavoro delicato, tu non sei come gli altri… parli le lingue, vieni dalla borghesia intellettuale: questa  è una donna a cui tengo molto. Ma io, dopo alcune settimane getto la spugna…  perché lei è proprio la diva che fa cascare le cose per farmele raccogliere, che chiama alle due di notte perché non trova l’acqua.. Mollo di colpo e lui ci rimane malissimo. Non ci sentiamo per  un anno. Ma nel frattempo divento giornalista de l’Unità, così lo “ritrovo” tentando di fare da “tramite” tra lui e il Pci, che amava e odiava, come è noto, dopo esserne stato espulso molti anni prima”.

Esiste una complementarietà tra libro e film?

“Certo, il film che è un thriller in presa diretta sugli ultimi tre mesi di vita di Pasolini, finisce sul suo corpo senza vita, mentre il libro inizia su quel corpo per arrivare all’oggi. Sono complementari, insomma. In qualche modo l’uno soffre senza l’altro. Non so se ci saranno degli spettatori che leggeranno il libro, però è importante che ci sia. Come è importante che il film esca nel 2016, altrimenti finite le celebrazioni del quarantennale, sarebbe di nuovo calato il silenzio su di lui.