Una canzone oltre il muro di Gaza

In sala dal 14 aprile (per Adler) “The Idol” del regista di Nazareth, Hany Abu-Assad. La storia vera di un ragazzo palestinese che sfidando qualsiasi frontiera riesce a realizzare il suo sogno: partecipare e vincere “Arab Idol”, il concorso canoro più importante del Medio Oriente…

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Una canzone può essere l’occasione per il riscatto di un popolo. È così, la storia è piena di esempi. E lo può essere anche un film. Tutte e due insieme, però, raramente ci riescono.
Non si sottrae a queste regola non scritta neanche The Idol, il settimo lungometraggio di Hany Abu-Assad, il regista palestinese, nato a Nazareth, 47 anni fa.

Prima della storia, lo sfondo: Gaza, le sue macerie. Una guerra subìta che non si avverte con gli strumenti tradizionali del cinema – le immagini di bombe, rastrellamenti, morti – ma si “vive” con l’ingrigirsi della vita quotidiana. Con le difficoltà, l’angoscia che aumentano scena dopo scena.
Ed è qui, su questo scenario, che Abu-Assad racconta, romanzandola un po’ – ma solo un po’ – la vera storia di un ragazzo che sfidando qualsiasi difficoltà, qualsiasi divieto, qualsiasi frontiera riesce a realizzare il suo sogno: partecipare e vincere “Arab Idol”, il concorso canoro più importante del Medio Oriente.

Realizzerà il suo sogno, dunque. E quello di sua sorella. Perché il film è diviso in due parti. Anche stilisticamente. La prima, è la microstoria di Muhammad, di sua sorella Nour – una bambina “tosta”, di poco più grande – e dei loro piccoli amici. Vivono a Gaza, in un campo profughi, e qui s’inventano una mini-band. Con le difficoltà che ci si può immaginare, con gli strumenti musicali fabbricati a mano. Sognano ad occhi aperti di diventare grandi, di andare al Cairo, la loro Hollywood più vicina.

Muhammad ha talento. Tanto. Si sente, lo si capisce dalle reazione dei “gradi”, degli uomini. Ma la storia ha una cesura: la sorellina si ammala di una grave malattia. Occorrerebbero molte migliaia di dollari per curarla. La famiglia non li ha, non può far nulla. Così, in punto di morte, Muhammad promette alla piccola che comunque vada arriverà al Cairo. Lo farà per lei.

Nella seconda parte, il bambino è già adulto. Fa il tassista. E Gaza è una prigione da cui vuole scappare. L’occasione, gliela offre una notizia, ascoltata chissà come: nella capitale egiziana ci sarà l’edizione di “Arab Idol”. Un talent show, identico in tutto e per tutto a quello che vediamo nelle nostre tv. E quella, decide, sarà la sua chance.

Con un problema, però: la frontiera fra Gaza e l’Egitto. È chiusa, sbarrata. Lui la supererà rocambolescamente e altrettanto rocambolescamente – grazie all’aiuto disinteressato di un altro ragazzo palestinese, stavolta “ricco e agiato” – riuscirà a partecipare al concorso. E tappa dopo tappa, vincerà tutte le selezioni. Fino alla finale. Trasmessa in diretta dalla tv palestinese, con decine di migliaia di persone in strada, come se fosse una finale di calcio.

Qui, nel film, le immagini diventano documentario: perché sono le scene vere della festa a Gaza, a cui partecipò anche il regista, che accompagnarono la vittoria di Muhammad Assaf. Vittoria che il ragazzo, allora poco più che ventenne, dedicò al suo popolo.

Il lungometraggio si conclude così (non si fa spoiler, la storia di quell’edizione di “Arab Idol” si può leggere ovunque), con quel pizzico di retorica che si può immaginare.

Retorica che magari si accentua un po’ nei minuti finali ma che è una costante durante tutto il film. Dove inquadrature, dialoghi, rumori addirittura i “colori”, fanno da subito capire che il film ha un messaggio.  Esplicito: alla fine un sogno sostenuto dalla caparbietà può vincere su qualsiasi tragedia.

Messaggio semplice. Quasi didascalico. Che arriva a sfiorare il melodramma, con quelle lunghe riprese di Muhammad che da solo, di notte, sul balcone della sua stanza d’albergo al Cairo, riflette a voce alta sulla vita. Davanti alla metropoli illuminata.

Di più, il film riesce quando ritrova gli strumenti narrativi più moderni. E svela ad esempio – con un semplice scambio di battute – che uno dei bambini componenti la mini-band, ha scelto un’altra strada: s’è fatto crescere il barbone ed è diventato l’ottuso difensore di un antico Islam. O come quando, solo attraverso un gioco di sguardi, fa capire che Gaza è imprigionata non solo da un esercito nemico ma anche da una mentalità vecchia. Quasi reazionaria. Che vive nei campi profughi, esattamente come lui.

Lui comunque alla fine ce la fa. E in finale, in diretta tv, canta una canzone palestinese tradizionale. Di quelle che tutto il mondo arabo conosce. Canzone che ad un orecchio occidentale non troppo educato, non sembra neanche particolarmente bella e originale. Ma per il vero Muhammad Assaf – per il regista e per le decine di migliaia di persone in strada quel giorno a Gaza – l’importante è che sia piaciuta ai giudici del talent.