Ruth contro Golia. La battaglia (non solo) legale di una giudice americana

In sala dal 28 marzo (per Videa) “Una giusta causa” di Mimi Leder, ispirato alla storia vera di Ruth Bader Ginsburg, la seconda donna nominata giudice della Corte Suprema americana nel ’93. Una vita di lotte per la difesa della parità di genere, combattuta in un mondo di soli uomini. Peccato che la Boston dei ’50 e la New York dei ’70 si vedano poco, mentre avrebbero costituito una “contraddizione” interessante. Parola di architetto …

In linea con molti film americani degli ultimi anni, prodotti principalmente da Partecipant Media, Una giusta causa (On the Basis of Sex) è tratto da una storia vera e come gli altri ha il compito di evidenziare storiche battaglie per i diritti civili, che siano delle donne, dei neri o degli ebrei.

Il recente Green Book che ha vinto l’Oscar 2019 per il miglior film, è ambientato nel 1962, tre anni prima dell’abrogazione delle leggi segregazioniste in vigore negli Stati ex-Confederati, Diritto di contare di Theodore Melfi racconta una vicenda del 1961, I Lovings di Jeff Nichols, invece del 1963, solo per citarne alcuni recenti.

Molti cineasti probabilmente si concentrano sui problemi di razzismo e discriminazione del passato per non affrontare quelli di oggi, espressione corrente di un’ incredibile involuzione della società.

Una giusta causa è un film biografico che narra gli esordi di Ruth Bader Ginsburg, la seconda donna giudice della Corte Suprema americana, nominata da Bill Clinton nel ’93, dopo Sandra Day O’Connor. Nel 2009 Bader Ginsburg era stata inserita tra le 100 donne più potenti dalla prestigiosa rivista di economia e finanza Forbes.

La sceneggiatura del film, scritta anni prima da Daniel Stiepleman, nipote di Ruth, faceva parte della Blacklist delle migliori sceneggiature non ancora realizzate. Con l’intento di offrire un tributo ad una donna che ha contribuito alle battaglie per la parità di genere, senza mai farsi sopraffare.

Ruth Bader (una bravissima Felicity Jones) sposata con Martin Ginsburg (un espressivo Armie Hammer), è stata una delle nove donne ammesse nel ’56 agli studi di giurisprudenza presso l’Università di Harvard. Sarà la prima della classe sia lì, sia all’Università della Columbia, dove nel ’59 si laurea con merito.

Ruth è riuscita a sostenere gli studi universitari nonostante avesse già una bambina piccola, Jane (Cailee Spaeny), e più tardi anche un secondo figlio James, grazie all’aiuto del marito con cui ha sempre condiviso la cura dei bambini e della casa.

Trasferitasi a New York negli anni ’70, nonostante il suo talento, non riuscì a trovare lavoro negli studi legali come avvocato, in quanto donna. Si dedicò pertanto all’insegnamento della legge alla Rutgers University, dove si concentrò sull’approfondimento dei casi di discriminazione.

Un giorno le capitò sotto mano (grazie al marito) una causa di discriminazione al contrario: Charles Moritz, sessantenne, aveva accudito la mamma malata e pagato una badante per farsi aiutare. Aveva quindi detratto le spese dalle tasse, ma nella giurisprudenza statunitense non era previsto che fosse un uomo, e per di più single, a doversi occupare della madre, quindi era stata bocciata dalla Commissione Tributaria.

A questo punto Ruth capì che questa sarebbe stata la “giusta causa” per rilevare la discrepanza tra Costituzione che afferma la parità dei diritti, al di là del genere e la giurisprudenza che invece li nega. Sostenuta, oltre che dal marito, dagli avvocati Mel Wulff (Justin Theroux), e Dorothy Kanyon (Kathy Bates) e dall’ACLU (Unione Americana per le Libertà Civili), nel ’72 Ruth vincerà la causa, creando uno storico precedente nella storia legale statunitense.

Peccato che il film invece di mettere in evidenza la straordinarietà della donna, punti piuttosto al classico legal movie americano in cui evidenziare l’eterno scontro tra Davide e Golia, senza toccare però le vette di Erin Brockovich di Steven Sodenbergh con la battagliera Julia Roberts o L’uomo della pioggia di Francis Coppola con Matt Damom.

Una giusta causa, inoltre, è girato in maggioranza in interni – ricostruiti a Montréal – affidando la ricostruzione d’epoca prevalentemente ai vestiti e soprattutto alla pettinatura della protagonista, mentre è quasi del tutto evitata l’ambientazione urbana.

La Boston degli anni ’50, anche se nella parte universitaria di Cambridge, e la Manhattan degli anni ’70, avrebbero costituito di per sé una contraddizione interessante. La regista ci fa intravedere Manhattan attraverso la ripresa delle macchine in fila, schiacciate dal teleobiettivo. In quegli anni New York è stata piuttosto vitale e teatro di variopinte manifestazioni di ogni tipo: dalla pace nel Vietnam ai cortei antirazzisti. Pensiamo anche a come sia rappresentata nel recente film La stanza delle meraviglie di Todd Haynes, dove la New York in bianco e nero è una città in fieri, quasi in costruzione, mentre negli anni ’70 è al massimo del suo splendore, la più grande città che si possa ancora considerare “europea”, ed è lì che si può trovare il massimo di tutto: i migliori direttori d’orchestra (Leonard Bernstein), i migliori locali di jazz (il Village Vangard), i migliori architetti al M.O.M.A. (i Five Architects) e così via.

Nel finale da dramma giudiziario il film diventa un feel-good-movie: ciò non toglie che sia godibile e rassicurante. La regista Mimi Leder racconta in un’intervista che ha scelto questa storia perché ha sentito molte affinità con le esperienze della Bader, entrambe madri, entrambe di origini ebraiche e con alle spalle una lunga storia d’amore, di cui si parla nel film.

La figura di Martin Ginsburg infatti è ben descritta nel suo essere collaborativo in casa e nel lavoro: un attento padre e marito, un intelligente avvocato, che fa di tutto per incoraggiare la moglie. Quasi da far ribaltare il noto adagio: “dietro una grande donna c’è un grande uomo”.