Se gli animali da circo sono gli uomini. Il Dumbo “anti-Disney” di Tim Burton
In sala dal 28 marzo (per Disney), “Dumbo”, l’atteso remake del classico d’antan firmato da Tim Burton in versione live-action. Reduce dallo sfortunato “Miss Peregrine. La casa dei ragazzi speciali“, al regista basta poco per trasformarlo in un’opera altra, con molte stimmate e caratteristiche sue proprie. E mentre Disney antropomorfizzava tutto, Burton si fa paladino di un’animalità pienamente liberata dagli uomini e restituita a se stessa …
Questo film è un paradosso. È un cartoon targato Disney; ha per protagonista Dumbo, uno dei character disneyani di maggior successo; fa della fiducia in se stessi, nell’amicizia e nella famiglia (tre comandamenti disneyani) la molla per l’affermazione e per il riscatto dalla “diversità”… ma alla fine, sotto sotto e neanche troppo, ne viene fuori una metafora antidisneyana. Andiamo con ordine.
La favola è nota, almeno per coloro che hanno visto l’originale lungometraggio animato (ma durava solo 64 minuti) sull’elefantino dalle orecchie così grandi da usarle come ali per volare. Nata come una storia scritta da Helen Aberson e illustrata da Harold Pearl (pensata per uno strano giocattolo, il «Roll-a-Book», una scatola con una finestrella davanti alla quale passavano testo e immagini stampate su un rullo che si azionava con una semplice rotella) diventò, nel 1941, il quarto «classico Disney» dopo Biancaneve, Pinocchio e Fantasia.
Tim Burton metamorfizza l’originale cartoon in un film live-action da 112 minuti con abbondanti dosi di CGI, ovvero di postproduzione digitale. All’inizio sembra un remake fedele al Dumbo d’antan: dalla sequenza del trenino che trasporta il circo in tournée lungo le strade della Florida, praticamente identica a quella del lungometraggio animato, alla citazione, della danza delle bolle di sapone a forma di elefanti rosa (ma l’originale del 1941 era molto più visionario, quasi psichedelico, rispetto all’attuale digital-leziosa versione burtoniana).
Al regista basta poco, però, per trasformarlo in un’opera altra, con molte stimmate e caratteristiche sue proprie. Così il circo dei Fratelli Medici (ma ne sopravvive uno solo, Max, interpretato da Danny De Vito) più che da animali d’ogni genere è popolato di «freak» dal volto umano (giganti forzuti, incantatori di serpenti e donne sirene); e così il piccolo Dumbo – strappato alla mamma elefante – che nel cartoon disneyano viene accolto e istruito dal topolino Timoteo qui sarà adottato dalla famiglia Farrier, composta dai due ragazzini Joe (Finley Hobbins), Milly (Nico Parker) e dal papà Holt (Colin Farrell).
Famiglia «disfunzionale» – come succede spesso nei film di Tim Burton – con il padre che torna dopo anni dalla Prima guerra mondiale con non pochi problemi a cominciare da un braccio in meno; una madre morta d’influenza che ha falcidiato anche altri membri del circo (probabilmente è l’epidemia di Spagnola: siamo nel 1919); e i due figli rimasti soli, affidati a due illusionisti.
Holt Farrell vorrebbe tornare a esibirsi con i suoi cavalli nel frattempo venduti da Max e scambiati con un’elefantessa incinta, «promessa» di un elefantino da far esibire per staccare qualche biglietto in più. Ma, come è noto, la «diversità» di Dumbo non sarà ben accolta, né dai suoi simili né dagli uomini, e quelle orecchie «mostruose» diventano oggetto di dileggio ed esclusione.
Ci vorrà l’ostinatezza di Milly per scoprire e far scoprire a Dumbo che proprio quell’handicap si risolverà in un vantaggio permettendo al cucciolo di volare e diventare un’attrazione di successo. Che attirerà tanto pubblico e l’interesse, molto interessato, di Vandevere (Michael Keaton) costruttore e imprenditore di Dreamland, un fantastico parco di divertimenti.
Così il piccolo circo di Max Medici verrà fagocitato e Dumbo diventerà il numero di punta dello spettacolo allestito nel Colosseum, la grande arena di Dreamland, e farà da spalla comica all’affascinante artista e trapezista francese Colette (Eva Green). Gli sviluppi delle dinamiche della famiglia Farrel e le conseguenze sul circo Medici e sull’impresa Dreamland – sotto ricatto finanziario del banchiere J. Griffin Remington (Alan Arkin) – non ve li raccontiamo perché porteranno con i loro intrecci al finale.
E allora: perché il Dumbo di Tim Burton è un paradosso, forse inconsapevolmente (?) antidisneyano? Perché gli animali non sono più i protagonisti assoluti, come succedeva nel cartoon; lo sono, invece, gli umani e sono loro (soprattutto la ragazzina Milly: il personaggio è un po’ antipatico e petulante ma la faccia della giovane attrice è davvero intrigante) a indicare la via del riscatto a Dumbo (di nuovo, credere soprattutto in sé stessi, senza l’aiuto di amuleti magici, come la piuma che fa starnutire l’elefantino e innesca il volo).
Perché mentre Disney antropomorfizzava tutto, Burton si fa paladino di un’animalità pienamente liberata dagli uomini e restituita a se stessa, come si vedrà nel finale. E poi perché Dreamland con le giostre, gli avveniristici toboga, i padiglioni da fiera e le tante attrazioni, più che al Luna Park di Coney Island fa pensare al parco a tema di Disneyland: alla città che costruì i sogni di chi li aveva sognati, cioè Walt Disney.
E il malizioso Tim Burton, nel finale – attenzione piccolo spoiler! – la fa rovinare facendo simbolicamente cadere dall’insegna sull’ingresso di Dreamland proprio la lettera «D»: come l’iniziale di Disney e di Dumbo. Insomma, come a dire: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.
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