Tutto su mio padre. La vita (da ricordare) di Héctor Abad Gómez, medico e attivista colombiano
Arriva in sala dal 17 giugno (per Lucky Red) “La nostra storia” di Fernando Trueba, adattamento dell’omonimo capolavoro della letteratura spagnola (in Italia, “L’oblio che saremo” Einaudi). La vita di Héctor Abad Gómez – raccontata dal figlio -, medico e attivista per i diritti umani colombiano, fatto fuori brutalmente per strada da due sicari del regime. Con lo straordinario Javier Càmara, tra i titoli di Cannes Label passati alla Festa del cinema di Roma …
Tutto su mio padre. Potrebbe essere questo il titolo.
Un uomo buono, un medico che aveva fermamente cercato di salvare i bambini del suo paese dalle mortali malattie causate dalla miseria in cui vivevano. Dovuta e voluta, come sempre succede, da una politica spregiudicata e violenta, mirata solo a proteggere la ricchezza di pochi.
Un uomo affettuosissimo, con la sua allegra e rumorosa famiglia, ma anche con chi curava o incontrava.
Un pensatore libero, determinato ad esprimersi e per questo obbligato ad andarsene dall’università, dove insegnava da una vita, e fatto fuori brutalmente per strada da due sicari in motoretta a Medellin in Colombia nel 1987.
Questo e altro ricorda Héctor Abad Facioline – l’amato, unico figlio maschio, tra cinque sorelle, di Héctor Abad Gomez, in L’oblio che saremo (Einaudi in Italia) – che negli anni Settanta, in un’audio registrazione diretta al suo papà, costretto dal regime a lavorare all’estero, si definisce Héctor terzo, perché ritiene che suo padre valga il doppio.
Un libro che il regista madrileno Fernando Trueba (Belle Epoque –Two Much) ha riportato commosso in questo film in cui il ruolo del protagonista di questa storia colombiana è affidato al bravo attore spagnolo Javier Càmara (volto di tanti film di Almodovar e di Truman, un vero amico è per sempre).
L’oblio che saremo si apre e si chiude in bianco e nero. Prende il via a Torino nel 1983 al cinema, su un primo piano di Al Pacino, in un film molto violento. A guardarlo Héctor “terzo”, in Italia per studiare letteratura, in compagnia di una ragazza da poco conosciuta.
Rientrato a casa trova nella segreteria telefonica una chiamata da Medellin: la sua famiglia gli chiede di tornare perché ci sia anche lui all’incontro all’università in onore del padre, costretto, in quanto marchiato marxista dal regime, a lasciare la sua carica.
Ma è nel cuore del racconto, a Medellin nei primi anni Settanta, che arriva il colore del film e soprattutto il calore che l’uomo buono ha saputo dare e distribuire nella sua armoniosa famiglia, ma anche nel suo lavoro. Calore che col colore trasformano il passato in unico fondamentale presente di chi racconta, invertendo il ruolo che normalmente nel cinema si dà al bianco e nero.
E questa è l’idea brillante in un film che ha per protagonista un uomo che ha speso tutta la sua vita di medico per salvare gli altri, disperato non per l’opposizione ottusa e violentissima del regime, che in questo film si vede poco, e che lui sa combattere e affrontare da sempre, ma solo perché non è riuscito a compiere la sua missione proprio con la sua amata figlia, uccisa da un melanoma.
Un uomo davvero buono, sempre molto difficile da raccontare al cinema. Qualità subdola la bontà che spesso trascina un’opera nella categoria film tv. In questo caso però forse solo per colpa e in alcuni momenti delle figure di contorno. E certo non dovuta all’ottima interpretazione del protagonista.
Resta comunque l’importanza di raccontare per non dimenticare, nonostante il titolo, uomini di questo genere.
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