Revenant, dove l’uomo è più spietato della natura

Il film di Alejandro González Iñárritu candidato a 12 Oscar. Nel duello tra DiCaprio e Tom Hardy, sviluppato per piani sequenza, c’è tutta la cine-letteratura di frontiera ma il centro non è la Natura: è il tradimento, la rinascita e la vendetta degli uomini. Ben peggiori degli animali…

THE REVENANT
È il 1823 nel North Dakota. Il cacciatore Hugh Glass (Leonardo DiCaprio) fa da guida agli uomini in caccia di pelli e pellicce: è stato sposato a una donna di etnia Pawnee dalla quale ha avuto un figlio. Nella battuta tra i gelidi boschi i rischi maggiori arrivano sia dagli indiani Ree pronti all’assalto alla diligenza, sia dalle asperità della Natura. Hugh Glass viene aggredito da un orso. Ridotto in fin di vita, è assistito dagli uomini capeggiati dal cacciatore John Fitzgerald (Tom Hardy): proprio questi, con uno stragemma, decide di abbandonarlo e uccide suo figlio. Ma Glass è ancora vivo…

Alejandro González Iñárritu adatta il romanzo di Michael Punke, Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta, ottenendo 3 Golden Globes e 12 nomination agli Oscar in tutte le categorie principali. Il cineasta messicano torna all’Academy dopo le 4 statuette di Birdman: lo fa con una storia di frontiera che attinge ad archetipi letterari, come tradimento e vendetta, inscenandola nel maestoso teatro della natura. Nel duello atavico tra Di Caprio e Hardy si ritrovano i romanzi di Cormac McCarthy, i western degli anni Duemila, ma senza l’ineluttabilità quasi sovrannaturale dello scrittore: percorrendo il libro di Punke, infatti, il regista mette al centro gli uomini e segue un approccio sentimentale, che nella durezza del contesto apre improvvisamente a deviazioni personali e stralci romantici. Glass non è uno spietato vendicatore, ma sogna una storia d’amore passata, continua a vedere il figlio defunto, infine sceglie di non uccidere rimettendo il nemico nelle mani di Dio.

Iñárritu disegna sequenze magistrali, come l’attacco iperrealista del grizzly, e si avvale di due grandi attori: se DiCaprio è lecitamente incensato Tom Hardy non gli è inferiore, intavolando tra i due un dialogo perenne, diretto o a distanza, che culmina nello scontro finale. Il suo è anche un film irrisolto e faticoso, che procede a tratti zoppicante: nei 156 minuti della proiezione non tutto funziona, se il dualismo Glass/Fitzgerald gira a dovere non accade altrettanto per gli innesti più intimi e onirici, laddove il regista si dimostra a disagio coi sogni e le immagini interiori.

In Birdman Riggan Thompson (Keaton) si divideva tra la vocazione commerciale, raffigurata nel supereroe interpretato da sempre, e la volontà autoriale di fare il salto di qualità, diventare “attore d’autore” e recitare Carver nella messinscena di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. In questo contesto Iñárritu installa la sua riflessione sull’immagine, sulla differenza tra la nostra essenza e la percezione di noi, ed è qui che il film precedente si lega a questo: l’attore popolare che vuole essere d’autore diventa qui un sopravvissuto che viene creduto morto, un vivo dato per scomparso che dunque è costretto a tornare. Glass è redivivo per colpa dello sguardo degli altri.

Oltre alle assonanze tra storie diverse, però, il discorso di Iñárritu continua soprattutto nello sviluppo del piano sequenza: il non stacco funambolico, potenzialmente infinito, esce dal teatro di posa di Birdman ed entra nella Natura, passando per la fotografia di Emmanuel Lubezki. Un paesaggio che – per il regista – non il è fulcro che emana il racconto, come in Malick, non c’è meraviglia ma al contrario una nuova “naturalità soggettiva”: l’uomo è il soggetto sempre al centro, il fondale sottolinea le sue azioni primarie (delitto, morte, rinascita, vendetta). Così la regia di Iñárritu acquista una possibile sostanza: nella sua forma esasperata, nel girare intorno agli attori, nel filmare continuo ci dice che il sangue scorre sempre per l’uomo, non per la Natura. Gli orsi non uccidono, noi ci tradiamo a vicenda e chiediamo vendetta.