Addio Fabio Carpi, il cinema necessario di un autore innamorato della parola

È morto il 26 dicembre a Parigi, Fabio Carpi. Regista e scrittore raffinato e appartato, aveva 93 anni. Grande amante della letteratura ha trasferito nei suoi film – spesso scritti insieme a Luigi Malerba – le influenze di Borges e Proust, riflettendo sull’incomunicabilità e la vecchiaia. Tra i suoi titoli più importanti, “Quartetto Basileus”, “Barbablù, Barbalù”, “L’amore necessario”. Molto apprezzato all’estero e “misconosciuto” in patria …

Appartato, raffinato e molto letterario. Così da essere stato tra quegli autori celebrati all’estero e ignorati in patria, causa la nota censura di mercato che, ieri come oggi, bandisce certo cinema dall’abituale programmazione. Come accadde, per esempio, ad uno dei suoi titoli più apprezzati, Quartetto Basileus (1983), rimasto un anno intero in sala a New York, e mai uscito o quasi in quelle italiane.

Se n’è andato a 93 anni Fabio Carpi, scrittore, giornalista, critico cinematografico, sceneggiatore e regista tra i più raffinati ed originali del nostro cinema. Simile per destino e poetiche ad Emidio Greco, anche lui scomparso. Nato a Milano il 19 gennaio 1925 e grande amante della letteratura – Flaubert e Proust, moltissimo -, spesso al lavoro in coppia con Luigi Malerba, Carpi ha cominciato il suo impegno letterario nel dopoguerra sulle pagine de l’Unità.

Nel ’51, trasferitosi in Brasile, ha proseguito come soggettista e sceneggiatore, riportando significativi successi. Uno dei suoi film, Sinha Moça, la dea bianca, che affrontava i problemi della schiavitù e della vita nelle piantagioni di caffè, girato nel 1954 da Tom Payne, ottenne importanti riconoscimenti a Venezia. Tornato in Italia nel 1954, si stabilì a Roma, dove continuò la sua attività di sceneggiatore fino alla prima metà degli anni Settanta.

Tra i suoi lavori da sceneggiatore ricordiamo Uma pulga na balança, diretto nel ’53 da Adolfo Celi, realizzato in Brasile; Un uomo a metà (’66) di Vittorio De Seta; Il vedovo (’59) di Dino Risi; Diario di una schizofrenica diretto nel 1968-1969 da Nelo Risi; nonché il capolavoro televisivo di Franco Rossi, L’Odissea (’69) e Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (’72) di Florestano Vancini.

L’esordio da regista televisivo arriva nel ’68 con Parliamo tanto di me, che descrive un incontro con lo scrittore, sceneggiatore e regista Cesare Zavattini. Mentre quello cinematografico è, piuttosto tardivo: Fabio Carpi ha 47 quando gira l’amaro e metaforico Corpo d’amore (’72), dedicato al tema dell’incomunicabilità fra padre e figlio, che li pone di fronte all’amore per una stessa donna, fino a trasformarli in assassini.

Spesso i protagonisti dei film di Carpi sono “grandi vecchi”, animati dallo stesso bisogno di sconfiggere il tempo. L’età della pace (’74), ispirato ad un suo racconto di dieci anni prima e qui adattato con Luigi Malerba, narra una crisi di senilità: un ricco anziano che ha combattuto la Guerra civile spagnola vive aggrappato ai ricordi e sente la vita sfuggirgli a poco a poco.
Fortissima, poi e dichiarata la componente psicoanalitica dei suoi film. Corpo d’amore è anche il titolo di un libro dello psicanalista americano Norman Brown, mentre L’età della pace deriva da una frase di una lettera scritta da Freud ad un amico: “Che la vecchiaia sia l’età della pace è una favola, come la giovinezza felice” (ci suggerisce Giancarlo Angeloni su l’Unità del 29/6/1974).
I temi ricorrenti del cinema di Carpi, dicevamo, sono l’incomunicabilità, il tradimento e la solitudine della vecchiaia. Un’altra amara metidazione sul tema è anche Quartetto Basileus (’82): il film narra infatti la vicenda di un quartetto di musicisti che, dopo la morte di uno dei componenti, si scioglie nel vano tentativo di recuperare la vita perduta durante il ferreo sodalizio. Come pure il successivo, Barbablù, Barbalù (’87) che ritrae un patriarca della psicoanalisi, dai tratti alla Cesare Musatti – su di lui aveva anche girato un doc televisivo – che sente avvicinarsi la morte. O, ancora, L’amore necessario (’91) con Ben Kingsley e Marie Christine Barrault, vecchia coppia in stile Sartre-De Beauvoir alle prese con la crisi di mezza età. E ancora Nel profondo paese straniero (’97), sull’ambiguo rapporto amoroso tra un anziano scrittore semicieco, ispirato liberamente alla figura di Borges e la sua giovane compagna. O l’ancor più letterario, Le intermittenze del cuore (2003), raffinata incursione nell’universo di Proust.
Il regista milanese ha inoltre alternato la sua attività cinematografica con quella di scrittore, pubblicando diversi romanzi: I luoghi abbandonati, Relazioni umane, La digestione artificiale, Mabuse, Nevermore, Patchwork , Come sono andate le cose.