Cormac McCarthy, il cantore del cuore di fango dell’America. Amatissimo dal cinema
È morto a 89 anni, appena un mese prima di compierne 90, Cormac McCarthy. Tra i più grandi romanzieri della sua generazione, ma anche il più schivo e atipico. Ha saputo rivisitare i temi fondanti dell’identità americana con uno stile inimitabile. Che ha stregato tanto cinema, dai Coen a James Franco…
Eremita, solitario, qualcuno ha addirittura allargato il campo semantico a straccione. A Cormac McCarthy forse non è stata perdonata la scelta di schivare la ribalta. O almeno così pare a giudicare dai ricordi che appaiono ora che il 13 giugno è morto, a 89 anni, proprio sulla soglia dei 90.
Eppure la disperazione della sua prosa, quello stile aggrappato alla pagina come lo sono i moribondi alla vita, da qualche parte doveva pur nascere. In fondo McCarthy ha avuto il sottile pregio di assomigliare alla propria scrittura, di non usarla per mascherarsi da altro ma di affidarsi a essa per esorcizzare un sentimento che lui per primo sentiva.
Era nato nel Rhode Island, nel ‘33, poi la famiglia si era trasferita in Tennessee, e presto aveva deciso di puntare tutto sulla scrittura, senza curarsi del lastrico su cui lo riduceva. Ci è voluto tempo perché arrivasse il successo, ma una volta entrato nel campo dei bestseller non ne è mai uscito. L’unico che sembrava non curarsene era proprio lui.
Nel sud degli States ha scoperto la frontiera, che sarebbe stata la protagonista del titolo della sua famosa trilogia: Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura, usciti tra il ‘92 e il ‘98. Tutti per Einaudi, in Italia, che ne ha pubblicato l’intera produzione, compreso il venturo Stella maris, che quindi rimarrà il suo ultimo romanzo, apparso assieme a Il passeggero dopo sedici anni di silenzio.
Ogni suo romanzo sembra sgorgare da una pozza nascosta nel cuore dell’America, impastato con sangue, sudore e polvere. Un groviglio che sa di disperazione autentica e atavica, di un’identità intrappolata in un mito a cui non è mai appartenuta.
Come poteva il cinema non innamorarsi di queste atmosfere? Dal libro omonimo, Premio Pulitzer nel 2007, John Hillcoat trasse La strada, nel 2009. Ma l’adattamento più indimenticabile di tutti rimarrà quello dei Coen, Non è un paese per vecchi, uscito nel 2007 ed entrato subito nel mito.
Il western perfetto però era un altro, Meridiano di sangue, parola di Harold Bloom, il critico più roccioso che l’America ricordi, secondo cui McCarthy era uno dei quattro punti cardinali del romanzo statunitense contemporaneo. Se dobbiamo situarlo, non potrebbe che essere quello meridionale.
Al cinema, ma con meno successo, è passato anche Child of God, ambizioso tentativo di James Franco dietro la macchina da presa. Così come The Counselor, diretto da Ridley Scott, e Sunset Limited, di Tommy Lee Jones. Tutti registi di prim’ordine, stregati da pagine sostanzialmente non replicabili.
Per quanto ci abbiano provato con migliori o peggiori risultati, i cineasti devono arrendersi all’evidenza che McCarthy, come tutti i grandi scrittori, passava solo parzialmente per le storie che raccontava. Il grosso del suo fascino era l’indefinibile quid del suo stile, delle sue atmosfere, del suo modo di guidarsi dentro una trama, facendo strada al lettore ma solo come effetto collaterale.
Tra i ricordi che si leggono in queste ore si scomodano tutti i grandi della letteratura statunitense, nessuno escluso. A riprova che c’è un sottile filo rosso a legare insieme il groviglio d’oltreoceano, prima che si annodi a formare le strisce e le stelle. In qualche modo quel filo passa sempre dal Sud, dalle storie di cowboy in solitaria, vittime e carnefici di una stessa violenza.
Quel filo è passato anche da Santa Fe, in New Mexico, dove McCarthy si era riparato. E lì si è spezzato ancora quando è morto. Ora non resta che attendere che qualcuno sappia riallacciarvisi.
Tobia Cimini
Perditempo professionista. Spende il novanta percento del suo tempo leggendo, vedendo un film o ascoltando Bruce Springsteen. Nel restante dieci, dorme.
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