Io che divido la “cella” con Albinati gli chiedo perché…?

Sempre a proposito de “La scuola cattolica”, che guida la cinquina dei finalisti dello Strega. Le riflessioni e i “dubbi” di un volontario del carcere di Rebibbia che insegna nella stessa aula dello scrittore. E si chiede: “perché chiamare gli allievi delinquenti”?…

Carcere

 

1292 pagine, 750 grammi. Non è un bell’inizio per parlare di un libro molto bello che con ogni probabilità vincerà il premio Strega di quest’anno.
Ma è proprio l’autore, Edoardo Albinati, ad avere richiamato questi  numeri all’inizio di una presentazione romana del suo romanzo.

Albinati ha detto che solo gli eroi riusciranno a leggere il suo libro per intero, sia per il numero delle pagine inconsueto che per il peso che rende abbastanza scomoda la lettura.

E allora io sono un eroe perché ho letto ognuna delle 1292 pagine con grande piacere, anche se con alcuni  brevi e transitori attacchi di noia.

Ho anche delle motivazioni particolari  che mi hanno consentito di compiere quest’atto di eroismo: Edoardo Albinati insegna da 20 anni nel carcere di Rebibbia.
Io invece da tre anni faccio il volontario tenendo un corso impropriamente chiamato di giornalismo.
In realtà con due incontri settimanali di due ore ciascuno registriamo una breve trasmissione radiofonica scritta e letta solo da detenuti.

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I nostri corsi  e quelli di Albinati si tengono negli stessi spazi di Rebibbia Nuovo Complesso. Quasi ci sfioriamo perché i corsi di Albinati  (Italiano) terminano attorno alle 12. I nostri cominciano alle 14.

Molti dei ragazzi che vengono da noi hanno avuto il professor Albinati alle medie e me ne parlano benissimo e io mi fido ciecamente del loro giudizio.

Nel libro ci sono tre capitoli che parlano dell’esperienza dell’autore nel carcere. Mi viene naturale, dunque, partire da quelli, premettendo che nei miei tre anni di esperienza a Rebibbia ho dato estrema importanza  al rapporto umano con i detenuti, ritenendolo più importante di quello tecnico e didattico.

E qui Albinati mi ha un po’ deluso. Chiama gli allievi delinquenti, dà loro del “tu”, ma desidera che a lui venga dato con pieno rispetto del “lei”. E poi raccontando l’episodio di un ragazzo in difficoltà, alla lavagna, di fronte ad un semplice problema di matematica, scrive di sorprendersi nel vedere “un bandito”  in ansia per così poco…
Insegnare a Rebibbia è una sua scelta e non la puoi fare se non hai una sorta di vocazione. Come mai dunque un tale atteggiamento?

Ma torno al libro. Ripeto: bellissimo. L’autore racconta la sua adolescenza tutta incentrata sul suo quartiere (Trieste) e sulle sue scuole. Il San Leone Magno (Slm, come lo chiama lui), scuola cattolica per ricchi e l’anno della maturità al Giulio Cesare. Ambianti e frequentazioni molto diverse. Compagni di classe straordinari, tutti con una storia da raccontare. Il super intelligente, Il conquistatore. Quello che gioca bene al calcio e poi: quelli del delitto del Circeo sempre presenti  in filigrana quasi in tutti i capitoli. Leggendo cercavo di ripassare i miei anni scolastici, ma niente. Tutto anonimo, né un nome, né una storia, né una personalità mi affioravano dalla memoria. E invece tra i suoi compagni c’è anche un giovane rivoluzionario che salta per aria sul tetto del manicomio criminale di Aversa mentre allestisce esplosivi per attentati.

Insomma, quelle 1292 pagine scorrono via tra le mani, leggere, nonostante il peso di 750 grammi. Ma perché quelle “durezze” sul carcere? I miei dubbi restano. E farò di tutto per incontrare Edoardo Albinati per chiarirli.
Sono pronto a smentirmi…